La vita di don Angelo (qui ripreso a fianco di colui che è stato l’ottimo Vicepresidente della sua Comunità, don Roberto Revelant, friulano trapiantato a Gubbio da Udine e Tolmezzo) è la vita di uno dei quattrocentomila preti cattolici che in tutto il mondo lavorano al servizio della Chiesa per il bene del Mondo.
In questo ha avuto ottimi maestri.
OTTIMI MAESTRI
Don Lorenzo Biagiotti, parroco di Scheggia, un prete che aveva fatto studi, anche teologici, molto sommari, ma aveva una fede di quelle che muovono le montagne.
E con totale semplicità ha tenuto con sé, fino alla loro morte, un fratello e una sorella davvero problematici.
La vita di don Angelo è stata segnata da eccellenti sacerdotiNel Seminario Minore di Gubbio (1948-1953) incontrò due grandi educatori: fin dall’inizio il Vicerettore (ma in realtà faceva il Rettore) don Antonio Fanucci, suo cugino di secondo grado, e (a partire dal 1950) il Padre Spirituale don Pietro Bottaccioli, futuro vescovo della città dei Ceri.
Don Antonio era impregnato del senso di Dio come misericordia, e noi adolescenti ci aprivamo a lui in una misura che la disciplina ecclesiastica di allora non prevedeva; qualcuno lo accusò …: di che cosa lo accusò? Forse di carpire le nostre intime confidenze di adolescenti alle prese con la crisi puberale, approfittando del suo ruolo di Vicerettore/Rettore? Fatto sta che da Roma gli mandarono un’ispezione, un rubizzo monsignore che ci interrogò uno per uno prima di rifare le valigie; più tardi, diventato parroco di Umbertide, avrebbe fatto del suo confessionale una specie di faro che illuminava un’infinità di vite squassate dalle prevaricazioni del mercato e del consumo.
Don Pietro, sostenitore di una “ascetica (relativamente) pesante”, complementare rispetto all’”ascetica (relativamente) leggera” per la quale optava don Antonio, fu per noi seminaristi eugubini degli anni ’50 come una salutare frustata; a distanza di tanti anni don Angelo ricorda nitidamente due giornate di ritiro (una sul tema “La Santa Volontà di Dio” e una su “Il Canone umile e santo della Messa”) che “don Pietrino” organizzò in due di quelle torride estati, che decimavano i seminaristi affascinati dalle acerbe grazie delle loro coetanee: due approfondimento che meriterebbero di essere ripresi e diffusi tra i giovani che volessero ancora prendere sul serio l’amicizia di Cristo.
NEI DUE SEMINARI MAGGIORI
Al Seminario Regionale di Assisi (1953-1955) il Rettore Dino Tomassini, futuro vescovo prima di Ischia, poi di Assisi, e i Padri Spirituali Monaldi e Ricci vennero recepiti dal giovane liceale come figure decisamente positive.
Al Seminario Romano Maggiore del Laterano (1955-1961) Rettore e Vicerettore erano invece cariatidi in funzione esclusivamente logistica, ma i padri Spirituali furono prima Mons. Pericle Felci, futuro Cardinale e Segretario del Concilio Ecumenico, e poi Mons. Giovanni Canestri, futuro Cardinale Arcivescovo di Genova: proibita ogni forma di banalità, anche se, scherzosamente, lo chiamavamo Johnny Basket.
Certo, la scorza del modello educativo vigente nel Seminario Romano Maggiore in quei tempi lasciava a volte disorientati: i ragazzi erano obbligati a darsi del lei, a pallone si giocava sempre con la tonaca ( e ad ogni entrata a pacca’ saltava via almeno un bottone)…; ma dentro quella scorza la sostanza c’era, e come! Un esempio: eravamo in 15, da tutta Italia, tutti molto dotati per gli studi: per non metterci in concorrenza gli uni con gli altri decidemmo di non far sapere a nessuno i voti che via via ci venivano assegnati nei molti esami che dovemmo sostenere, nella facoltà di Filosofia prima e in quella di Teologia dopo.
Da giovane prete il suo riferimento furono i tanti confratelli esemplari: a Umbertide Don Antonio Fanucci, del quale fu coadiutore per qualche tempo, a titolo di parroco di Civitella Ranieri; Don Pietro Bottaccioli e soprattutto Don Rolando Biancarelli; ma anche tutti coloro che “sul pezzo” ci sono stati una vita intera.
CAPODARCO
Poi arrivò Capodarco. E lui non vide altro.
La sintesi più convincente della “Spiritualità di Capodarco” gliela offrì don Carlo Molari, quando, nel convegno torinese del CNCA, a Torino, nel 1984 ci disse:
Il destino degli emarginati e dei poveri è quello di essere sempre assenti là dove si decide del loro futuro. Ma la loro missione è quella di vivere in modo tale da rivoluzionare le situazioni di male causate dal peccato e da indicare le vie attraverso le quali la Vita si apre faticosamente il cammino nella storia degli uomini. Essi diventano così il luogo privilegiato dove la storia delinea il destino di tutti gli uomini e formula le decisioni da prendere per il futuro dell’umanità.
Ma perché ciò avvenga è necessario che gli emarginati, i sofferenti, i dannati dagli uomini non siano lasciati al loro destino. È necessario che altri fratelli si uniscano a loro per accogliere le parole che attraverso di essi il Verbo continua a sussurrare agli uomini e per esprimere l’amore liberatore che Dio ha per loro. Poiché l’amore di Dio non può manifestarsi sulla terra se non attraverso gesti amorosi di uomini, solo se gli emarginati saranno circondati dall’oblatività di fratelli potranno costituire un luogo salvifico. La loro condizione diventerà esplosione di forza nuova per l’umanità intera.
Quando Gesù moriva sulla croce, fuori della città, ai margini di una festa pasquale, si compiva un delitto, un’ingiustizia si consumava. Ma Gesù seppe vivere in un modo così coerente la sua dannazione, da fare di un delitto degli uomini una riserva di grazia da parte di Dio. Un omicidio divenne un evento salvifico.
Non c’era che poca gente a condividere quella tragedia. Ma fu quella condivisione che germinò una nuova umanità. Non è senza significato che tra quella poca gente ci fosse anche sua Madre.
Gli aveva insegnato ad amare, avvolgendolo di oblatività, e il figlio “imparò da ciò che soffrì l’obbedienza” (Ebrei 5, 8). Gli aveva insegnato a morire, dato che ogni gesto di amore è apprendimento dell’offerta radicale che un giorno la morte chiede ad ogni uomo. Sotto la croce completò la sua maternità con l’ultimo gesto della sua condivisione oblativa. Gli insegnò a morire fino all’ultimo respiro. E Gesù si consegnò al punto da “essere costituito da Dio Messia e Signore” (cfr. Atti 2, 36).
La croce era ai margini della città, e divenne una frontiera per l’umanità intera. La frontiera è sempre marginale. Ma essa è l’unico luogo dove il futuro si introduce nella storia: essa è il centro dell’invenzione della vita.
La storia nuova non nasce certo dove si scrivono le leggi, né dove i potenti programmano la spartizione dei beni della terra. La storia nuova nasce dove si sprigionano le forze sotterranee della vita, dove esplodono le invenzioni dello Spirito.
Là dove il margine diventa frontiera.
Ma perché ciò avvenga è necessario che
– chi si trova in emarginazione viva la sua condizione in modo da sprigionare la forza nascosta della Vita,
– chi condivide la loro situazione metta in circolo tale oblatività da cambiare “l’ingiustizia in grazia, la sofferenza in salvezza”.
Di fronte ad una spiritualità così limpida e profonda, e al tempo stesso così concreta e coinvolgente, non c’era nessuna possibilità di resistere.
LA FAMIGLIA
Don angelo è l’ultimo di cinque figli, il primo dei quali è morto appena nato, nel 1919. Suo padre, Adamo, s’è fatto la I guerra mondiale dal primo all’ultimo giorno; la trincea gli ha lasciato enormi vene varicose sugli stinchi. È riuscito a mettere su un piccolo Alimentari e ferramenta; è mandatario del Consorzio Agrario di Perugia per l’ammasso del grano.
Una famiglia dalla vita economicamente decorosa.
Babbo è morto nel 1968, mamma nel 1976, dopo aver vissuto a tratti, ma per diverso tempo, in Comunità con suo figlio prete, prima a Fabriano poi a Gubbio. Si amano senza smancerie e, quando è necessario, si sopportano senza fare tragedie.
Quella sera. Metà anni 60 …: babbo, mamma e figlio si apprestano a vedere in TV Canzonissima. Dopo Carosello. Ma Carosello su mamma ha sempre un effetto soporifero fulminante. Braccia conserte, testa reclinata sul petto …10 minuti , non di più. Stasera si sveglia e fa: Ohé! Quanto canta bene Gianni Morandi! Padre e figlio: Veramente ancora non ha cantato. – Ah! Sì, E io allora sarei una visionaria! Un minuto di silenzio, poi, l’annunciatrice: Ed ecco a voi … Gianni Morandi!!. Gli sguardi dei due terzi della famiglia si concentrano sull’altro terzo..
Ma lei non fa una grinza, Arcanta! Tradotto: canta di nuovo. Babbo si alza da tavola, augura la buona notte e se va bofonchiando: Da piccolo comandava la mamma, sotto le armi comandava il caporale, poi mi sono sposato… Buona notte. La cosa finì lì. Senza strascichi.
Dei due fratelli, uno, Ubaldo, classe 1920,diventerà medico “Condotto”, a Sassoferrato. Lo diventerà grazie al fatto di essere stato colpito in tenera età dalla poliomielite che gli ha lasciato una gamba più corta dell’altra.
Per farlo studiare Adamo farà sacrifici durissimi, anche se non paragonabili a quelli che ha dovuto fare per pagare sei mesi di ricovero al Rizzoli di Bologna: quando per circa dieci anni ha dovuto alzarsi alle 2 di notte, imboccare la via verso la località “Molino delle Ogne” (i “Piscianelli”), prelevare un carico di marna cementizia e trasportarlo fino al cementificio di Sassoferrato (20 km, con lunghi tratti dell’andata a piedi); per poi tornare a Scheggia e aprire all’alba il negozio.
“Baldino” eserciterà in maniera esemplare, tra il consenso di tutti, la sua professione di medico condotto, a Sassoferrato (AN) e coniugherà la competenza e la prudenza dei suoi interventi con una carica di umorismo sottile; fungerà anche da medico analista nell’ospedale della cittadina marchigiana. Cardiopatico come tutti in famiglia, si accorcerà la vita per non avere voluto prendere per tempo in considerazione le tecniche di pulitura meccanica della arterie (Siamo medici, o garzoni d’officina?)
L’altro fratello è Bruno, classe 1924, direttore di banca; ma gli studi li ha fatti in seminario, a Gubbio e ad Assisi, giungendo alle soglie del sacerdozio; poi, durante la II guerra mondiale, una malattia polmonare non grave, ma tenace,l’ha tenuto per troppo tempo lontano dal seminario e l’ha convinto che quella non era la sua strada: ma a Scheggia tutti furono e sono convinti che Bruno il prete l’avrebbe fatto meglio, ma molto meglio di don Angelo, il cui cammino verso il sacerdozio Bruno accompagnò assiduamente, ricorrendo anche a qualche tirata d’orecchi; ma quando, il 19 marzo 1961, don Angelo entrò nella chiesa parrocchiale di Scheggia per la prima Messa, fu lui a cantargli, con la voce rotta dall’emozione, il mottetto Ecce altare Domini. Buon musicista. Coautore, con il suo Vicerettore di Assisi, Dino Tomassini, futuro vescovo di Assisi, di una pregevolissima rivisitazione in chiave di operetta della scoperta dell’America. Democristiano limpido. Vicesindaco. Presidente Diocesano dell’Azione cattolica. Morto di cuore a 54 anni, quando ormai le statine e gli altri intrugli salva/cardiopatici erano alle soglie.
E una sorella, Rosangela, classe 1930, commerciante; è sempre stata l’amica di tutti, in paese, e al tempo stesso si è costruita, insieme con il marito Mario Ubaldini, una fiorente attività nel settore dell’abbigliamento.
Ma, ben al di là del successo commerciale, quel negozio al centro del paese è stato un crocevia di incontri, di discorsi, forse anche di pettegolezzi, certamente di crescita culturale comune; cosa che non può più accadere nei centri della grande distribuzione dove entri, prendi, paghi ed esci sconosciuto come ci sei entrato.
Due persone esemplari.
Mamma Maddalena, casalinga e “commessa” nel negozio, da sempre va a messa tutti giorni. E anche lei s’alza nel cuore della notte, per lavare i panni suoi e quelli di altri: quattro soldi senza IVA; una notte busseranno forte due carabinieri in divisa: non si spiegano quella luce sempre accesa di notte nella cantina di casa. Religiosissimi. Mamma va a messa tutti i giorni.
Religiosi soprattutto nell’assunzione di responsabilità. Questo quinto figlio non era… previsto, non per nulla i tre fratelli maggiori avevano assunto i nomi di tutt’e quattro i nonni, e il doppio nome di Rosangela lo dice chiaramente: le caselle di nonna Rosa e nonno Angelo erano rimaste vuote, era insensato occuparne solo una.
Non previsto, ma accettato senza storie. E non è che questa scelta la facessero tutti. Il piccolo Angelo nel suo paese avvertirà il sibilo di storie orribili, appena sussurrate: …che quella determinata donna aveva…“buttato giù” un figlio prima che nascesse. Nessuno dei suoi familiari ha mai perso la Messa della Domenica.
QUALE SEMINARIO: GUBBIO
Innanzitutto il Seminario Vescovile di Gubbio
Insieme con quasi tutti i maschietti suoi compagni alle elementari (a Scheggia non c’è ancora la Scuola Media) entra nel Seminario Minore di Gubbio; scuola media (3 anni) e ginnasio (2 anni).

Ottobre 1951, ben 11 adolescenti provenienti da Scheggia sono in Seminario, e tutti frequentano la scuola media interna, tranne il più grandicello, Menotti Stafficci, che frequenta il IV ginnasio (IV e V ginnasio: così si chiamavano allora i primi due anni di liceo, che durava non 5, ma 3 anni).
Sono (prima fila, da sinistra a destra): Umberto Fanucci: II media, poi professore di scuola media superiore, morto giovane di nefrite; Angelo Giovannelli, II media, poi Dirigente di Uffici Statali; Angelo Fanucci, terza media: alla sinistra di Menotti: Uberto Bellucci, III media, poi Impiegato in una ditta privata a Roma e successivamente sindaco di Scheggia per due mandati; Giuseppe Lisandrelli, III media, poi geometra in forza ad una grossa ditta edilizia di Roma; Silvano Rosi, III media, poi avvocato a Milano; in seconda fila: Umberto Parruccini, poi impiegato in un ufficio postale della Lombardia, ucciso durante un tentativo di rapina; Giuliano Braccini, III meda, morto di nefrite a 17/18 anni; Giorgio Coldagelli, III media, poi perito agrario in forza alla tenuta agraria dell’Università di Perugia, a Casalina; Ubaldo Bertinelli, poi prete, viceparroco a Umbertide e Parroco a Scheggia. Ubaldo Angeloni non c’è, perché è al Seminario Regionale di Assisi.
Licenza ginnasiale, 1953; 50 kilogrammi fa
QUALE SEMINARIO: ASSISI
Conseguita la licenza ginnasiale presso il Liceo parificato retto a Gubbio dalle Missionarie della Scuola (dette “Le Peppe”, dal nome della Preside Giuseppina Della Stella: presto si trasferiranno a Roma, dove fonderanno la LUMSA) passa dal Seminario Minore di Gubbio al Seminario Regionale di Assisi, liceo classico, dove, tra l’altro, stringe amicizia con Fortunato Baldelli, che sarà poi Nunzio Apostolico a Parigi, Cardinale e Penitenziere di S. Romana Chiesa.
Tra coloro che frequentano i tre anni di liceo e coloro che frequentano i quattro di teologia i seminaristi del Seminario Regioanle di Assisi, provenienti da tutta l’Umbria, sono poco meno di 200. La vita è molto intensa, ma non è facile la personalizzazione del proprio percorso formativo. Tra i professori del liceo eccellono Chiarini per il latino e Cavalieri per il greco e… la chimica. Ogni classe ha un suo “prefetto”: don Angelo li ricorda ambedue, quello del I e quello della II liceo, con grande affetto: Mons. Lorenzo Chiarinelli, poi Vescovo di Viterbo, e Mons. Giuseppe Granieri, esponente del Clero Perugino.
Il Seminario Regionale, molto bello esteriormente, all’interno è strutturato in grandi cameroni, e d’inverno gli spifferi sono legione: all’ordine del giorno i geloni alle mani (poco male), ma in agguato ci sono soprattutto le nefriti che mettono a rischio la salute e addirittura la vita.
Dei cinque giovani scheggiaioli che nel 1955 studiano al Regionale di Assisi, tre diventeranno preti (don Ubaldo Angeloni, don Ubaldo Bertinelli e don Angelo); due moriranno di nefrite: Giuliano Braccini e Umberto Fanucci.
È forte nello studio l’emulazione fra ragazzi che nei rispettivi seminari minori eccellevano e qui sono scivolati a metà classifica. La piccola ambizione ridicola del futuro Don Angelo lo portò ad imparare a memoria, in vista dell’esame di lingua greca, il VI libro dell’Odissea, per intero, dopo che il prof. Chiarini gli aveva… esternato il dubbio che fosse stato lui, durante la prova scritta di latino, a “passare” la traduzione della versione ai suo amici di corso.
QUALE SEMINARIO: ROMA 1955
Il Seminario Pio era stato istituito da Pio IX dopo la fine dello Stato Pontificio; era destinato ad accogliere i migliori seminaristi di quello che era stato, per tanti secoli, il territorio della Chiesa. La relativa borsa di studio veniva assegnata sulla base di due prove scritte: io fallii clamorosamente proprio la versione dall’italiano al latino.
Pur senza essere riuscito a vincere la borsa di studio, viene ammesso al Seminario Pio, aggregato al Seminario Romano Maggiore di Piazza S. Giovanni in Laterano. Rettore è Mons. Plinio Pascoli. Si iscrive alla Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Lateranense.
Tra il 1958 e il 1960 redige (in una lingua latina moto maccheronica, non senza strafalcioni) gli appunti dalle lezioni di Teologia Dogmatica tenute da Antonio Piolanti, romagnolo sanguigno e anticonciliare già prima che il Concilio iniziasse.
1956
Consegue da privatista il diploma di maturità classica presso il Liceo Apollinare di Roma. Oltre che il futuro Cardinale Baldelli, della Diocesi di Assisi, al Laterano c’è anche, dalla Diocesi di Todi, un altro grande amico, Ennio Antonelli, oggi Cardinale anche lui.
Ci consideravano, i nostri Superiori, dei cavalli di razza, oppure dei muli da traino? Senza l’una o l’altra di queste ipotesi non si spiega come fosse possibile che ci obbligassero ad un tour de force disumano quale quello che la mia classe, il I anno di filosofia, visse nell’estate del 1956: un anno in cui – oltre tutto – l’estate romana fu particolarmente torrida. A giugno ci obbligarono a dare tutti gli esami del I anno di filosofia nell’Ateneo lateranense (che ancora non era Università), compreso l’esame sottilissimo, di gnoseologia, tenuto dal grande prof. Masi. Nel mese di luglio immediatamente successivo ci obbligarono a sostenere gli esami di maturità classica. Il che voleva dire, nella parte scritta, affrontare gli stessi scritti che affrontavano gli efebi che al Liceo Apollinare avevano regolarmente frequentato, ma all’orale quelli che (come me) quanto esami statali potevano vantare solo quello di quinta ginnasio, venivano interrogati su ogni singola materia del primo, del secondo e del terzo anno; diviso in due parti, il nostro esame orale poteva durare anche cinque ore in tutto: due ore e mezzo per la parte letteraria e due ore e mezzo per la parte scientifica. L’esame di storia, ad esempio: “Dai Fenici a Churchill”. Prosit. In una di quelle notti sulle quali si aprivano come occhi spaventati le finestre di chi tirava a lungo lo studio, si levò improvviso un canto: “Vola, colomba bianca vola…”. Era uno di noi, che aveva dato fuori di brutto.
1957
Consegue il baccalaureato in filosofia. Si iscrive alla Facoltà di Teologia dell’Ateneo Lateranense. Studia pianoforte e organo con il Maestro P. Santini o.f.m.; diviene uno degli organisti del Seminario Romano. Suona il bombardino nella banda del Seminario. Ha l’onore massimo di mettere le mani sull’organo di S. Andrea della Valle, in Corso Vittorio.
1958
Scelto a sorte, insieme con Fortunato Baldelli veglia la salma di Pio XII, a S. Pietro, l’ultima notte prima che la bara venga prematuramente chiusa; tocca con mano lo “scandalo Galeazzi Lisi”.
28 ottobre 1958
Folgorato fin dal momento della sua inopinata elezione dallo stile evangelico di Papa Giovanni XXIII, anche lui antico alunno del Seminario Romano, lo riconoscerà per sempre come l’unico Papa della sua vita.
Papa Giovanni ci ha fatto visita nella villa estiva del Seminario Romano Maggiore, a Roccantica, in Sabina. Con lui ci sono il Card. Tardini, Segretario di Stato, il Card. Mimmi, Arcivescovo di Napoli.
Quando, il 9 ottobre 1958, morì Pio XII (ma la sua morte fu annunciata dal quotidiano “Il tempo” con cinque giorni di anticipo!), terminate le pletoriche onoranze funebri al Papa defunto, i “Novendiali”, anche i ragazzi che al Laterano stavano iniziando il II anno di teologia cominciarono a “fare il totopapa”; erano in quindici, provenivano da tutta Italia (uno solo era di Roma), erano tutti più o meno supponenti e consci di quel loro presunto valore che li aveva portati a studiare a Roma, a preferenza di tanti altri loro coetanei rimasti a studiare nei rispettivi seminari regionali o diocesani; soprattutto dal giorno che cominciò il Conclave dal quale doveva uscire il nuovo Papa, essi, oltre che recarsi a piazza S. Pietro ad aspettare la fumata bianca sia nella tarda mattinata che alla sera, espressero la stessa gamma di preferenze che tutti esprimevano: i papabili erano Ottaviani (del Santo Uffizio, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede), Lercaro di Bologna, Ruffini di Palermo e soprattutto Siri di Genova, che Pio XII aveva fatto cardinale a soli 47 anni, e adesso di anni ne aveva 52. Nessuno di quei presuntuosetti che eravamo noi fece il nome di Roncalli. Fanucci si espresse a favore di Paul Émile Léger, cardinale canadese: aveva una faccia intelligente. Qualcun altro fece il nome del Card. Agagianian, Patriarca degli Armeni: aveva una bella barba bianca. Logico che, con motivazioni di questo peso specifico, nessuno facesse il nome di Roncalli.
Il conclave si aprì il 25 ottobre, la sera stessa cominciarono le votazioni. Teoricamente i cardinali elettori erano 53, ma i governi comunisti dell’Est europeo avevano negato il visto all’ungherese Mindszenty ed al croato Stepinac: il quorum dell’elezione scese a 35/51. Già ampiamente disorientati, i vecchi cardinali lo furono ulteriormente dall’iniziativa messa in atto proprio in quei giorni dall’archiatra pontificio Riccardo Galeazzi Lisi: un figuro losco del quale Pio XII si fidava ciecamente, uno che, dopo aver venduto alla Santa Sede il brevetto di un nuovo metodo per l’imbalsamazione che si rivelò acqua fresca, dopo aver venduto l’anteprima della notizia della morte del Papa a “Il Tempo”, dopo aver venduto non si sa quante foto del Papa morente ad un giornale francese, organizzò una mostra delle sue fasulle procedure d’imbalsamazione nella quale appariva nudo il corpo di Pio XII e venivano forniti anche i dettagli tecnici più crudi. Anche in quei ragazzi della II teologia si stava sgretolando quell’immagine ieratica di Pio XII che in loro era affiorata fin da bambini e nel tempo si era consolidata.
In una situazione del genere i cardinali decisero di… non decidere. Vennero fatti due nomi che si presumevano innocui: Agagianian e Roncalli. Volevano un Papa di transizione: la spuntò Roncalli, non foss’altro per i suoi 78 anni d’età.
La sera del 28 ottobre, mentre noi ragazzotti ce ne stavamo andando dal sagrato di Piazza S. Pietro perché la fumata era sembrata a tutti nera, la grande Aula delle Benedizioni, che sovrasta longitudinalmente l’intero porticato della basilica, inopinatamente si illuminò, e qualcuno sciorinò l’enorme arazzo dalla sua finestra centrale. Dietro front!
Poi la voce chioccia del cecuziente Card. Canali annunciò che era stato eletto Roncalli, col nome di Giovanni XXIII.
Che delusione! All’uscita dalla piazza trovarono i giornali con la biografia dell’eletto, e seppero che tra i VIP non era né uno sconosciuto né una prima donna; che era una personalità tranquilla, tradizionale, a tratti moderatamente originale; che era stato mandato a Venezia come premio per la delicatissima funzione di riconciliatore che aveva svolto con successo nella Francia del dopoguerra, lacerata dalle scelte collaborazioniste (filonaziste) operate dall’eroe della I guerra mondiale, Maresciallo Pétain. Pio, buono, rassicurante per gli indecisi, non inviso ai nostalgici della Chiesa antica ma nemmeno ai “progressisti”. Soprattutto abbastanza avanti con gli anni. “L’uomo del giusto mezzo”. Un papa di transizione.
Ma a quei ragazzi quella biografia sembrò un panegirico gratuito. Loro l’avevano conosciuto di persona, anche se fuggevolmente; forse proprio il giorno in cui, iniziato il conclave, lui, che a suo tempo aveva studiato in quello stesso Seminario Romano, aveva tenuto loro una meditazione mattutina nella Cappella della Fiducia; e fra l’altro aveva alluso alla scissione dell’atomo, ripetendo più volte la scissione dell’attimo, tra la contenuta ilarità di quei presunti talentuosi.
Che delusione! Un contadino bergamasco finito chissà perché nella diplomazia pontificia. Un bonaccione, pacioso, con enormi padiglioni auricolari, probabilmente anche un po’ addormentato. E i ben informati fecero sapere che in tanti anni di diplomazia non aveva imparato bene nemmeno la lingua che aveva dovuto parlare, cioè il francese, al punto che in uno dei famosi saloni della Parigi diplomatica un giorno, confondendo i sostantivi “vau” con “veu”, aveva detto che i suoi genitori, non avendo figli, avevano fatto un vitello ed era nato lui.
Che delusione! E invece Andrea Riccardi dirà che la sua elezione fu un caso più unico che raro, di provvidenziale strabismo collettivo del Sacro Collegio. Fu una ventata incredibile, quella che attraversò la Chiesa e in qualche modo il mondo intero, anche perché andò a sommarsi alle ventate della “nuova frontiera” di Kennedy e dell’antistalinismo di Krusciov.
Al “suo” Seminario del Laterano si recò pochi giorni dopo l’elezione; e alla domanda su quale differenza ci fosse tra fare il Patriarca a Venezia e il Papa a Roma rispose: “Nessuna. Dell’acqua lì e dell’Acqua qui, canali lì e Canali qui!”. Mons. Dell’Acqua era il Sostituto della Segreteria di Stato, il Card. Canali era il governatore della Città del Vaticano.
Erano momenti deliziosi. Gli aneddoti e le battute si moltiplicavano; come quando raccontava di come era andato, in conclave, il ballottaggio fra lui e Agagianian: I nostri due nomi apparivano e scomparivano, emergevano e sparivano sott’acqua, proprio come i ceci nell’acqua bollente. Fuochi d’artificio.
Pio XII aveva riversato sulla sua Chiesa una messe enorme di insegnamenti, che spesso diventavano “istruzioni per l’uso del Vangelo” da parte delle varie categorie: i sindacalisti, le ostetriche, gli educatori. Cose a volta anche molto belle, ma tremendamente astratte. A partire dal 1958 dalla cattedra di Pietro non partirono più dotte disquisizioni di principio, ma sobrie, ragionate, realistiche analisi sul mondo moderno, che approdarono a documenti di altissimo profilo: sono le due encicliche di Papa Giovanni, la Pacem in terris e la Mater et Magistra.
Più tardi dopo la sua ordinazione sacerdotale, don Angelo avrebbe ascoltato a bocca aperta la promessa che Giovanni fece nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, un anno esatto prima dell’inizio del Concilio: Da oggi la Chiesa di Cristo sarà la Chiesa di tutti, e soprattutto la Chiesa dei poveri.
Parole che si sono impresse a fuoco nell’animo del giovane prete eugubino e ne hanno segnato a fondo l’impegno pastorale. Ma prima ancora, in chiave ben più importante, sono diventate la sostanza dell’impegno pastorale di quel certo gesuita, Padre Giorgio Bergoglio, che diventerà Papa col nome di Francesco.
IL 18 MARZO 1961
Il 18 marzo 1961, nella Chiesa parrocchiale di Scheggia, dedicata a S. Paterniano, il Vescovo di Gubbio S.E. Mons. Beniamino Ubaldi lo ordina sacerdote.
Ubaldi, nato in diocesi di S. Angelo in Vado, a Lamoli (PU) nel 1882, era Vescovo di Gubbio dal 1932, dopo essere stato Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Perugia; sarebbe morto nel 1965, lasciando un’impronta profonda e duratura nella Diocesi di S. Ubaldo.
Quando morirà, il 14 gennaio 1965, per una devastante emorragia interna, prima (per quanto possibile) nel reparto di medicina dell’Ospedale di Piazza Quaranta Martiri, poi, dopo il decesso, nella Chiesa di S. Giovanni, l’intera città si stringerà intorno a lui, per quattro giorni; la sua salma, esposta alla venerazione della sua gente, verrà ininterrottamente visitata da persone di ogni ceto sociale; la Chiesa rimarrà aperta giorno e notte per quattro giorni, fino alla domenica 17 gennaio; nel pomeriggio di quel giorno i suoi preti ne porteranno a spalla la salma, nella bara scoperta, fino al Duomo sua Cattedra, dove riposerà nella cappella da lui destinata a propria tomba: più tardi anche il Vescovo Bottaccioli costruirà il luogo del suo ultimo riposo accanto a quello del suo Vescovo. Alla Liturgia del Commiato (che allora era soltanto, brutalmente, il funerale), saranno presenti tutti i Vescovi dell’Umbria, insieme ai Vescovi di Camerino, Prato, Cortona, Cagli, Urbania e Sant’Angelo in Vado, Sessa Aurunca. E tutta Gubbio. Il corteo funebre si snoderà da S. Giovanni a Piazza Quaranta Martiri, a S. Martino, a Piazza Grande, per risalire poi lungo la ripidissima Via Ducale verso la Cattedrale: quando la testa del corteo entrerà nella Chiesa Cattedrale, la coda starà ancora uscendo da Piazza S. Giovanni.
Non fu un funerale. Non fu nemmeno una semplice Liturgia di Commiato. Fu un trionfo.
Di Mons. Ubaldi ha scritto una pregevolissima biografia colui che poi gli sarebbe succeduto alla Guida della Diocesi, don Pietro Bottaccioli, poi vescovo anche lui di Gubbio. Nel 1974, per i tipi della Tipografia Vispi & Angeletti. Lui, che era stato accanto a Mons. Ubaldi, a Roma, tutti i giorni, per tutta la durata del Concilio Ecumenico Vaticano II, delle cui diverse sessioni Ubaldi non perse nemmeno una seduta, entusiasmandosi per la figura di Chiesa che andava emergendo dalla Grande Assemblea, una Chiesa per tanti aspetti così diversa da quella nella quale lui era nato e vissuto.
Il prezioso volumetto firmato da Pietro Bottaccioli (“BENIAMINO UBALDI, UN VESCOVO FRA DUE ETÀ”) dedica solo l’ultimo dei suoi quattro capitoli agli avvenimenti materiali della sua esistenza: studi, partecipazione alla I guerra mondiale, servizi ecclesiali come cappellano militare prima e poi come parroco e vicario generale a Perugia.
Pur ricordando quale fu l’acme della sua vita pastorale, quando nel giugno del 1944 tentò in tutti i modi di scongiurare la fucilazione dei quaranta Eugubini presi in ostaggio dalla Wehrmacht, anche con la reiterata offerta della propria, i primi tre capitoli dell’opera individuano, in maniera puntualmente documentata, le linee pastorali del suo servizio di Vescovo a Gubbio: Dalla ricerca dell’appoggio politico alla povertà dell’annuncio evangelico (cap. I), Anticomunismo ideale e anticomunismo borghese (cap. II), Da una Chiesa centralizzata ad una Chiesa di Comunione (cap. III).
Una macchia? Dal medico dr. Giovanni Turziani, eugubino che ha operato sempre a Firenze, con grande successo, gli verrà l’accusa di avere tentato di far rimuovere dal ruolo di insegnante la sua compagna Eleonora Benveduti, “Noretta”, donna di grande levatura morale, passata dai fasti sonnolenti della piccola nobiltà provinciale alla dura militanza politica nel Partito Comunista, divenendo anche il primo Sindaco di Scandicci dopo la Liberazione: i due, pur amandosi teneramente e in assoluta fedeltà, non avevano mai voluto sposarsi, nemmeno in comune, e questo agli occhi dell’opinione pubblica dei cattolici di allora, era incompatibile con il ruolo di educatrice. Ubaldi si uniformò. E ne chiese la rimozione dall’incarico al Provveditorato agli Studi: un macchia, dunque, solo a posteriori, cioè con la coscienza delle dignità delle realtà terrene (in questo caso l’amore di coppia) che noi Cattolici abbiamo imparato dal Concilio Vaticano II. Era impensabile che potesse fare diversamente.
Anche quella sera del 18 marzo 1961 vicino a Mons. Ubaldi che consacrava sacerdote il 22.enne don Angelo c’era Bottaccioli, “don Pietrino”, che non ha mai permesso che il suo ruolo di Assistente al Vescovo nella Celebrazione Liturgica venisse declassato al ruolo di Cerimoniere.
Al termine della Liturgia di Ordinazione, Mons. Ubaldi consegnò di persona a don Angelo il suo dono: una sua foto, con sotto una dedica: A don Angelo Maria Fanucci, che mi fu sempre tanto caro, con immensa commozione oggi ho imposto le mani e ho detto: Tu es sacerdos in aeternum. Oh! Che io possa rivederlo un giorno accanto me. Lassù, più bello e più angelo di quanto non fosse quaggiù!