Franchino

1974/75. Don Angelo adotta con procedimento ordinario “Franchino”, un simpaticissimo bambino; nella foto è il secondo a sinistra, che pieno di curiosità si sporge verso l’interno.
Toscano di 11 anni, disabile grave (tetraparetico e oligofrenico), la mamma lo aveva …“depositato” all’ospedale pediatrico di Siena, quando aveva 4 anni, e non l’aveva più “ritirato”, nemmeno quando, all’età di dieci anni, lo conoscemmo noi.

Franchino prende il cognome Fanucci e anche oggi vive con don Angelo, a S. Marco: dormono nella stessa camera. A volte litigano, soprattutto in merito all’ora in cui bisogna spegnere la TV (Franco è un tifoso accanito de Il grande Fratello). Lui in genere è dolcissimo, ma a volte perde la testa, urla e bestemmia. Purtroppo. Non ha recepito il messaggio dell’Azienda di Promozione Turistica dell’Umbria, che tenta ancora di accreditare questa nostra verde regione come “terra di Santi”.
Il caso di Franchino è emblematico. Vivendo intensamente con gli altri, validi o disabili che siano non importa, impara tante cose.
Quando don Angelo l’adottò, “babbo” era l’unica parola che conosceva.
Oggi di parole ne conosce molte, anche se le pronuncia malamente: Nicoletta lui l’ha chiamata “Bacoletta” tanti e anni fa, e Bacoletta è rimasta!

NE VALE LA PENA?
Dipende; l’handicappato è un problema o una risorsa? Dipende.
Don Angelo ha in mano il libro bello e angosciante che ha scritto il giovane papà di un neonato handicappato, parente di un suo caro amico. Una parola domina in quel libro: NAUFRAGIO. La nascita di quel figlio è equivalsa ad un naufragio per la sua famiglia.
Per il prete padre Franchino è stata una risorsa, anzi la massima risorsa morale e spirituale della sua vita, un fatto grandioso. Non ci fosse stato lui, la sua vita sarebbe stata tutt’altra, molto più povera; e se per caso è rimasta povera lo stesso, la colpa è stata ed è tutta e soltanto sua.

Ma il mondo nel quale don Angelo ha vissuto non è stato quello in cui vivono tutti: nelle comunità di accoglienza, quando funzionano, la solidarietà quotidiana ha cancellato quel povero assetto relazionale che vige di norma nel nostro mondo, “il povero mondo dei diritti e dei doveri”, come lo chiama don Franco; nelle comunità di accoglienza, quando funzionano, la solidarietà spontanea e concreta circola come il sangue nel corpo, soprattutto intorno a “casi” come Franchino; quando lo adottò, una fisioterapista, una di quelle che soffrono della Sindrome del Primario, disse a don Angelo: “Da oggi in avanti lei dovrà passare molte ore al giorno con Franchino”; è quello che succede nella famiglia nucleare di oggi: è inevitabile che la nascita di un bambino handicappato si risolva in un “naufragio”. È quello che è accaduto alla famiglia un mio carissimo amico, persona molto nota e stimata a Gubbio: sua figlia ha avuto un bambino disabile e questo ha messo la famiglia intera in una crisi talmente radicale da parlare di “naufragio”, come fa il papà del bambino in un libro bello e angosciante. Ma in una comunità di accoglienza questo non succede, non può succedere; quelli come Franchino, arrivati in comunità come figli di nessuno, diventano subito figli di tutti.
E le opportunità che sono state offerte a don Angelo sono state molte e su molti livelli.
Sul piano economico, attraverso la convenzione stipulata con la sua comunità, lo Stato gli ha garantito la base economica per il sostegno a Franchino e ai piccoli passi che egli ha realizzato.
Per la verità oggi cresce il numero di quelli che si chiedono: è giusto che lo Stato, per mantenere Franchino e garantirgli tutta la vita possibile, spenda quello che spende per far laureare in ingegneria i due figli di Giuliano? Non sarebbe meglio, invece che produrre tanti sforzi per farli crescere, riunire questi ragazzi a 30 per volta, in fila, con un operatore solo, a battere le mani e cantare la Bombabà? È il ritorno al più bieco custodialismo, a quell’aberrante filosofia secondo la quale in una società I normali vanno pro/mossi (spinti in avanti), per quanto riguarda i poveri, è sufficiente custodirli.
Ma nella concretezza della sua vita personale, le opportunità più grandi per vivere nel modo giusto la presenza di Franchino, a don Angelo gliele ha date l’ispirazione cristiana che ha assimilato da giovane studente, a Roma, quando, stimolato anche dalla strepitosa intelligenza di alcuni suoi carissimi compagni di corso (Molinaro, Spada, Marinelli), invece di tampinare le ragazze passava ore e ore a tentare di capire il pensiero di S. Tommaso d’Aquino, e quell’ispirazione cristiana gliel’ha approfondita e articolata il Concilio vissuto giorno dopo giorno, quando ogni mattino si precipitava all’edicola di Giulietto Tomassoni a divorare su Il giornale del mattino di Firenze le Cronache del Concilio che quotidianamente redigeva P. Ernesto Balducci.
Sul piano antropologico, la nuova visione conciliare del mondo gli imponeva atteggiamenti di fondamentale importanza per guardare quel suo figlio con gli occhi giusti.
La religio vera, che consiste nel tentativo utopico di guardare il mondo con gli occhi di Dio, lo impegnava come credente ad assolutizzare il relativo, perché quello che è piccolo davanti gli uomini può essere grandissimo davanti a Dio; il senso della vita come dinamismo in infinitum lo impegnava a credere che la vita tanto più è autentica quanto più costa fatica conquistarsela; il fatto che la dignità della persona sia nella visione cristiana della vita un a priori non quantificabile fa sì che il vivere accanto a un disabile psichico sia ancora più significativo del vivere accanto ad un disabile soltanto fisico, perché è più impegnativo riconoscere nello psichico l’immagine di Dio.
Sul piano propriamente teologico, la vita quotidiana con Franco ha moltiplicato le occasioni nelle quali a don Angelo è stato concesso di cogliere la verità di quello che S. Paolo chiama “l’anelito delle creature verso il loro compimento”: quando don Angelo legge, prima di addormentarsi, lo fa anche lui, che non sa leggere, ma quello è un gesto di protesta e di speranza: perché tu dovresti poter leggere e io no? E verrà mai il momento che potrò leggere anche io?

Vedete bene che gente come Franchino suscita interrogativi enormi; e la qualità della risposta dà la misura della vera della nostra civiltà.

LA BAGARRE CHE DURÒ UNA SETTIMANA
Franchino scatenò una bagarre, un tourbillon di notizie che presero ad inseguirsi dal Tg 1 della Rai a La Nazione di Firenze, da Il Corriere della sera di Milano a Teleradio Gubbio, passando per la Repubblica e Il Tempo, una specie di buriana, durata una settimana, emblematica di quanto poco l’emarginazione interessi i grandi mass media.
1987. E’ successo che una coppia di giovani disabili lavoratori, che si erano formati in comunità e vivevano in una delle sue articolazioni, Lino Parolini artigiano in proprio a Ponte S. Giovanni e la sua bella moglie A,Maria Bellucci, infermiera professionale in quel Distretto, avevano fatto domanda per l’idoneità all’adozione di un bambino ed avevano avuto riposta negativa. Perché?
Per due motivi: perché erano disabili; perché vivevano in una comunità di disabili.
Gli stessi due motivi che tredici anni prima avevano permesso al single don Angelo di adottare adesso impedivano alla famiglia Parolini/Bellucci di farlo: cos’era successo? Quale processo involutivo era in atto?
Per porre un quesito pesante come questo Michelangelo Chiurchiù, boss della Comunità di Capodarco di Roma, convocò una Conferenza Stampa presso gli Uffici dell’Università, a S. Ivo alla Sapienza.
Andammo e la trovammo gremita di giornalisti. C’erano tutte, ma proprio tutte le grandi testate italiane.
Ma la denuncia dell’ingiustizia subita da Lino e Anna passò subito in secondo piano. L’unica cosa che suscitò un’enorme ondata di interesse fu la notizia del “figlio del prete”; a volte fra le righe dei resoconti giornalistici sembrò insinuarsi il sospetto che il bambino fosse veramente il figlio del prete, data la notevole somiglianza di Franchino con don Angelo.
Guardate un po’ cosa scrisse IL CORRIERE DELLA SERA, e qualche tempo dopo IL TEMPO.
Ingeriti, masticati, deglutiti, eliminati: tutto in una settimana.
Prosit!

Corriere della Sera

Corriere della Sera

Il Tempo

Il Tempo

I FIORETTI DI FRANCHINO

“Babbo!”: una provvidenziale fregatura
Parte prima: il contatto

Autunno 1974. Da pochi mesi la Comunità di S. Girolamo ha aperto i battenti a metà costa del Monte Ansciano. Arriva da Siena, dall’Ospedale Pediatrico, una telefonata da parte di un’Assistente Sociale, Sig.ra Benci, pare si chiamasse: Sentite, c’è qui da noi bambino di 10 anni, Franco, handicappato, che da circa sei anni si trova qui perché sua madre l’ha ricoverato sei anni fa e né lei né noi non sapremmo dire chi potrebbe accoglierlo. Forse potreste accoglierlo voi.
Appena qualche giorno, e don Angelo raggiunge Siena.
C’è stato, a Siena, un paio di altre volte, e la sua bellezza l’ha incantato: cosa non facile per chi viene da Gubbio. Don Angelo ricorda che da qualche parte, forse sull’arco di Porta Camollia, ha letto una frase latina che non ha dimenticato: Cor magis tibi Sena pandit.
Lui arriva già con il cuore aperto, e Siena promette di aprirglielo ulteriormente, insieme col suo cuore di umanissima città.
All’Ospedale pediatrico sanno della sua visita. L’hanno preparato, il piccoletto, cosicché nel momento in cui chiude la porta dell’ascensore che l’ha portato su al reparto dei bambini disabili, il prete eugubino si sente chiamare alle spalle : “Babbo!”. Si volta, è lui, Franco, Franchino. Piccolo, sorridente, rotondetto sulla sua mini/carrozzina su misura. “Babbo”.
“Babbo”. Tra tutti quei bambini Franco era sicuramente il meno grave di tutti.
C’era un biondino con la faccia stanchissima e gli occhi semichiusi, che batteva ritmicamente sul separatore che nel pianale della sua carrozzina gli teneva una gamba alla giusta distanza dall’altra: batteva, e batteva, e batteva. Da giorni. Da anni. Per quanto ancora?
C’era soprattutto una bambina, adagiata a terra, coperta da un piccolo lenzuolo. Somigliava ad un comico inglese dal volto stralunato che aveva in quegli anni un certo successo, Marty Feldman, naso storpiato da un pugno, bulbi oculari prominenti, strabismo totale; ma il suo sorriso era di una disarmante dolcezza. “Ha lo stomaco forte, lei?” La scoprono con delicatezza. Non le si è formata la cassa toracica, gli organi interni sono visibili come su di un tavola artificiale di anatomia, solo che questi sono veri. Non dureranno molto, ma sono veri. Il suo sorriso era di un’enorme dolcezza.
Ci sediamo, un caffè. Franco soffre di tetraparesi spastica, oligofrenia e (a tratti ) lo aggrediscono delle crisi epilettiche anche forti. La mamma s’è risposata e cerca una sistemazione per quel suo bambino che non può tenere con sé…
“Voi… sareste in grado?” Don Angelo si stringe nelle spalle, ma l’idea già gli arride. Soprattutto perché Franchino continua a sorridergli e a chiamarlo “Babbo”. “Datemi tempo, ne parlo con i miei, a Gubbio, poi ci sentiamo per telefono”. A presto!
“Babbo”. Il giovane prete riprende la strada del ritorno a casa, e quella parola prende a frullargli nella testa, come un trapano. Continuerà a lungo.
“Babbo” sono gli anni belli e ingannevoli degli ideologismo esasperati, e basta un nome per dar fuoco a una foresta. “Babbo! Ma guarda un po’, “babbo”. Ma a noi preti ci chiamano “Padre”! Babbo – padre: ma vuoi mettere l’abissale potenziale diversità semantica delle due parole!”.
A casa ne parla con chi capita, e si carica giorno dopo giorno, con quel nome che gli trapana il cervello : “Babbo”. Qualcuno butta là un battuta: “Don A’, se lo pendiamo con noi, magari impara a chiamarti babo, all’eugubina!”.
È soprattutto M. Assunta Marini che insiste: “Prendiamolo con noi! Della sua assistenza me ne faccio carico io!”: c’è da fidarsi, di lei che da anni e anni accudisce Silvana Panza (amiotrofia flaccida), colei che nel 1984 sarà la prima presidente della Comunità e da poco tempo si è fatta carico di Augusta e Tiziano, due dei sette figli di suo fratello Benedetto, le due mascottes della Comunità, dieci anni in due. Bene, si va a Siena.

“Babbo!”: una provvidenziale fregatura
Parte seconda: fatto, scritto e sottoscritto

A prelevare Franchino a Siena ci si va in pullmino, un Ford Transit guidato da don Angelo; pieno: a Franchino è stato riservato il posto immediatamente dietro al guidatore.
Ma Franchino non intende viaggiare seduto: da quasi subito si alza sulle sue gambette rigide ma robuste, si aggrappa allo schienale del guidatore e … guarda fuori. Fuori. Il mondo, le piante, i semafori, le auto, le persone.
Una di queste persone, al successivo semaforo, don Angelo per un pelo non la investe; dev’essere, il tale, un toscanaccio DOC perché, invece di ringraziare il cielo per lo scampato pericolo, sbraita e mostra i pugni. Franchino lo vede e lo chiama babbo. Don Angelo farfuglia: “Ma come, … eravamo d’accordo, … babbo dovevo essere solo io”!
Poco dopo il Ford Transit si mette in coda dietro un camioncino che trasporta un robusto vitello; lo portano al macello, perché stanno venendo in città dalla campagna, e non risulta che i Senesi siano soliti portare a spasso i vitelli per compiacere l’Ente Protezione degli Animali. Franchino lo vede e lo chiama babbo. A questo punto don Angelo accosta, spegne il motore, tira il freno a mano, s’inginocchia sul sedile del guidatore e si volta verso Franchino: gli parlano in diversi. Ma basta poco, pochissimo perché venga a galla la verità: “Babbo” è l’unica parola che Franchino conosce. Una fregatura? Sissignori, una fregatura! Coi fiocchi.
Forte di una coscienza cresciuta e confermata da 36 anni di vita condivisa con Franchino, oggi, 2010, don Angelo conferma: “È stata la fregatura più provvidenziale che potessi attendermi dal Padre nostro che è nei cieli”.
Qualche giorno dopo, di lunedì (giorno libero della scuola), a Perugia, don Angelo incontra Giorgio Battistacci, esponente del Cattolicesimo Democratico umbro, Presidente del Tribunale, nel Caffè di Via: quando è Perugia, don Angelo se può ci fa una puntatina verso mezzogiorno, per vedere da vicino gli eroi del formidabile Perugia Calcio di Ilario Castagner, e scambiare un saluto o magari una mezza battuta con Vannini, Dal Ffiume, Ceccarini…: pur arrivando secondi dietro il Milan, in quel campionato il Perugia non subirà nemmeno una sconfitta.
Al racconto di don Angelo, Giorgio Battistacci ride di cuore; poi però azzarda: “Perché non lo adotti?”
“Adottarlo, …Io, …celibe irredimibile?”; don Angelo è della scuola di don Romano, il quale insegna che (“oltretutto”) “Il matrimonio non è un affare, perché se fosse un affare noi preti l’avremmo già fatto da un pezzo.
Giorgio, rassicurante: “Guarda, per autorizzare un’adozione la legge non esige una famiglia, ma un clima di famiglia. Se vuoi, ti ci penso io.
Detto fatto. Fa tutto lui. Nella primavera del 1975 Franchino prende il cognome Fanucci. In calce al provvedimento c’è la firma do Gian Paolo Peucci, Presidente del Tribunale per i Minori di Firenze, dove Franco è nato nel 1964.
Prima però il Giudice Battistacci dovrà interrogare Mamma Maddalena, alla presenza di suo figlio don Angelo, e chiederle se quel figlio le vuole bene, oppure la tratta con poco rispetto, o se..: Maddalena, seduta di fronte al Giudice, a fianco di don Angelo, farà il gesto di ammollare al suo figliolo prete un ceffone con la mano giusta, quella integhita a mo’ di tavoletta dalle troppe montagne di panni lavati per tutta la vita.
Il Giudice decripterà il suo gesto in maniera assolutamente corretta.

I massi di Siloe

Seconda metà degli anni ’70. Don Angelo viaggia con una vecchissima Citroën CX (il cui motore consuma un litro di olio ogni 500 km!). Roma, Quarto Miglio; Milano, Via Gluck; Trento, Le Laste; Lecce, Via del Mare: un litro di olio ogni 500 km.
Oggi, sabato, Franchino e lui sono stati a Scheggia, ospiti di sua sorella Rosangela. I sapori di mamma: l’erba con le patate, l’uovo in camicia, gli involtini, il ciambellotto con il cioccolato che si snoda nell’impasto come un serpente; Franchino ormai fa parte della famiglia, zii e nipoti ogni tanto ne reclamano la presenza a pranzo.
Ma al ritorno da Scheggia si è scatenato un temporale di dimensioni mai viste; al Passo di Madonna della Cima era forte, ma all’imbocco della Gola del Bottaccione, subito dopo il laghetto che alimentava la città vecchia attraverso il bellissimo acquedotto medioevale, s’è fatto furibondo.
Vento fortissimo, pioggia a scrosci enormi, sono le 4 del pomeriggio ed è già notte nella gola.
All’altezza del generale un camion attrezzato dei Vigili del Fuoco, che risalgono da Gubbio, si mette di traverso sulla strada e ci impedisce di raggiungere la città: pochi minuti e alle nostre spalle si forma una fila lunghissima.
I pompieri accendono le fotoelettriche in direzione del costone del Monte Ingino, dal quale si sono già staccati diversi massi; alcuni di loro si arrampicano e con delle lunghe picche ne fanno cadere altri; la strada sarà riaperta solo quando l’ultimo masso sarà caduto: ce ne vorrà del tempo.
Franchino lo trascorre guardando con interesse quello che succede, io lo trascorro bofonchiando: “E muovetevi, vagabondi! Forza, finiamola ‘sta nanna!” Il repertorio in uso tra gli Italiani medio/mediocri. Un pompiere sta smontando la fotoelettrica, movimenti lenti e sagaci. “E su, muovetevi! Vogliamo fare nottata?”. La fila dietro di noi dovrebbe ormai aver superato i 4/5 chilometri. Un pompiere si sta asciugando il sudore. “Per forza, non fate niente tutto l’anno! Vagabondi… ma la colpa mica è vostra, la colpa è di chi vi dà lo stipendio!”

***
La mattina dopo, domenica, dico Messa a S. Pietro, la bellissima chiesa rinascimentale. Franchino è in prima fila. Non che ami molto le Messe, ma se c’è da suonare il campanello non si tira indietro. Sto leggendo il Vangelo sotto la grande scritta che, su, in alto, ricorda come questa chiesa fu consacrata nel 1527, l’anno della morte di Machiavelli, l’anno del Sacco di Roma; È il 13.mo capitolo di Luca; Gesù tenta di smontare uno dei pregiudizi culturali più diffusi al suo tempo, secondo il quale se accadeva una disgrazia, era Dio che puniva chi l’aveva subito, o quanto meno i suoi genitori.
Leggevo con l’enfasi dovuta: “Credete voi che quei Galilei il cui sangue Pilato fece sì che si mescolasse a quello di loro sacrifici fossero più peccatori di tutti gli altri Galilei? Silenzio, l’interrogativo rimane appiccato a mezz’aria.
Poi, di nuovo: “O quelle diciotto persone sulle quali tempo fa è crollata la Torre di Siloe, credete che fosse colpa loro, o …”: Franchino alza la mano sinistra, interviene, sentenzia: “Dei pompieri!”.
La risata mi gorgogliò in gola, irresistibile. Ma dei presenti quasi nessuno aveva udito le parole di Franchino. Toccò a me ripeterle, e spiegare come, e in quali termini …
Quel giorno dimenticai di spiegare il Vangelo, e la diffusione della fede cattolica non ne subì un gran danno.

“Chiama l’ambulanza!” – “Sei sempre nero?” -Non posso …- Maleducato

Seconda metà degli anni ’80. Il Gruppo Famiglia aggregato alla Parrocchia di Padule stasera è tutto lì, in cucina, l’unico ambiente comune dove c’è posto anche per le carrozzine. Alla TV trasmettono per l’ennesima volta “Lo Squalo”. Per l’ennesima volta. Tutti, tranne Franchino, l’hanno visto, e più di una volta. Mano a mano che la proiezione avanza, le palpebre si fanno sempre più pesanti, qualcuno già ronfa, stravaccato sulla sedia. Ma Franchino no. Franchino è attentissimo, ogni tanto s’alza sui braccioli della sua carrozzina, non perde un fotogramma.
E quando la belva trancia un arto del malcapitato bagnante, e l’arto va lentamente a fondo. Franchino comincia a gridare con voce stentorea : “Chiama l’ambulanza! Chiama l’ambulanza!” Tutti in piedi, scoppia un applauso. Come ci sarà arrivato? Franchino non sa leggere. “Beh! Proprio per questo, visto che sui mezzi dell’Ospedale “Ambulanza è scritta con scrittura speculare!”
Mah!, con questa storia del “non sa leggere”. Era successo già anni prima, con Gianni Menichetti che faceva l’obbiezione di coscienza con noi; aveva sorpreso Franchino che leggeva a luce spenta, e aveva commentato: Questa sì che è intelligenza: visto che non sa leggere, per lo meno leggendo risparmia l’energia elettrica”.
“Chiama l’ambulanza!”
Dai Fabio, va’ da Memmo, fatti aprire il negozio sul retro, compera due bottiglie di spumante, c’è da brindare per festeggiare la laurea di Franchino, giusto?
Fabio è un obbiettore di coscienza che abita proprio di fronte alla Chiesa. Durante il suo servizio non s’è preso nemmeno un giorno di permesso, sulle diverse settimane che il suo ruolo gli consentiva
***
Per qualche tempo abbiamo ospitato Simeone, un ragazzo nero. Il solito burlone aveva messo in allarme Franchino: “Sta attento a quando ti lava, attento a quando si stinge e macchia anche te!”. E lui ci è stato attento, a quando si bagnava anche Simeone per fargli la doccia. Attento al punto che, dopo qualche volta non ha potuto trattenerla, la domanda giusta: “Ma tu …sei sempre nero?”
***
Ama visceralmente la casa, Franchino, e non vorrebbe mai uscirne Quando glielo proponi, che sia per andare a Messa oppure in pizzeria, non importa, lui dice subito di no; poi in genere cambia opinione e sta fuori anche a lungo.
Particolarmente ostica gli riesce la fatica di andare al lavoro, il recarsi quotidianamente presso uno dei Centri Diurni della Comunità, per realizzare le piccole iniziative di terapia occupazionale che lì vengono proposte.
Quest’anno, 2010, quando ha fatto la neve, Franchino ha covato a lungo la riposa giusta a chi gli avrebbe chiesto: Andiamo al lavoro?”. Risposta: “Ma non ci ho le catene per la carrozzina!”.
***
Maleducato anche. La sera in cui suo padre, al termine di una giornata balorda, una di quelle in cui giri e giri e non combini niente, si è seduto al suo capezzale, l’ha abbracciato forte e con un filo di voce gli ha sussurrato: “Franchino mio, fortuna che ci sei tu, che non perdi nemmeno una goccia di quello che la Comunità riesce a darti!”.
Una commozione intensa. Un’atmosfera incantata. Ci pensa Franchino a mandarla in frantumi: “Babbo, puzziato!”
Traduzione: Babbo, ti puzza il fiato. Una volta nel linguaggio della boxe colpi di questo genere si chiamavano uppercut.
Mandarlo a quel paese? Ma lui viene da quel paese, e in quel paese c’è già stato fin troppo a lungo.