Anche lui è stato tra i pionieri di S. Girolamo.
Era la mattina del 17 maggio 1974, con Don Angelo stavano partendo da Fabriano per l’ex-convento di San Girolamo a Gubbio Clara Fazi e Ottornio Montanari; a Gubbio ci aspettava, biondo oro, come un generale teutonico (infatti lo chiamavano il Bock) Antonio Scavizzi, diciottenne che in totale gratuità avrebbe offerto quasi dieci anni della sua vita alla nascente Comunità, rendendosi disponibile in qualsiasi momento a qualsiasi necessità.
Nella grande cucina della Comunità la Buona Novella apparve un signore alto, pelato e con un fac-simile di voglia di lampone su una guancia. Naso a forma di banana. Scarpe da tennis, senza calzini. Camicetta da mercatino rionale. Logori calzoni di vetusto fustagno. “Ho 58 anni e voglio venire a vivere con voi”.
Il Prof. Dossi sceglieva Capodarco, che aveva conosciuto quando aveva concesso alla neonata comunità di don Franco Monterubbianesi di potersi insediare nella Villa Piccolomini, di proprietà del Centro Turisitico Giovanile, la sceglieva come alternativa radicale alla vita che aveva condotto a Roma, tra i leaders nazionali dell’Azione Cattolica, nei giorni dell’onnipotenza.
Una scelta generosa, ma quasi elusivamente religiosa e soprattutto volontaristica: quella vita che Dossi voleva scegliere non sarebbe mai stata veramente “sua”: non faceva per lui quell’andirivieni di padelle e di pappagalli, quel vitto raffazzonato da cuoche perennemente in prova, ….: e poi quelle interminabili riunioni, il più delle volte per decider di nulla: per un decisionista come lui dovevano essere uno strazio.
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Il Prof. Dossi quando decise di aggregarsi alla nascente Comunità di S. Girolamo aveva alle spalle un’esperienza fortissima, che gli era penetrata a fondo nelle ossa: l’esperienza del potere praticamente assoluto che il dopoguerrra aveva assegnato nel settore nevralgico della formazione dei giovani, alla Chiesa e alla DC;
A Roma, a fianco del presidente Carlo Carretto, era stato membro della direzione della GIAC, quella Gioventù Italiana di Azione Cattolica che durante la prima ricostruzione era letteralmente esplosa, sia nei numeri dei giovani iscritti che nell’intensità delle attività formative che venivano loro offerte.
Ma, al di là dei fatti spirituali, sul piano storico/materiale era anche il tempo in cui i cattolici in genere e la DC in particolare, facevano il bello e il cattivo tempo. La DC di quel tempo è stata accusata di aver “cementificato Roma”: accusa eccessiva, ma certo le (poche) regole edilizie venivano baipassate con estrema non chalence; ne approfitterà anche il prof. Dossi che, saltando a piedi pari alcune disposizione che lo proibivano, contribuì in maniera determinante a costruire, nel quartiere Aurelio, poco distante dalla Domus Pacis, un edificio più grande e più funzionale di essa, la Domus Mariae.
Il 30enne prof. Dossi allestì in Via della Conciliazione 1 un ufficio estremamente efficiente; per un certo periodo ebbe, come suo segretario, particolare, quel Vincenzo Scotti che poi sarebbe divenuto Ministro del Lavoro in uno dei tanti ministeri che la DC capeggiò nel dopoguerra.
Dossi non era fatto per l’ordinaria amministrazione, anche se sapeva portarla avanti in modo egregio. Dossi era un … pentolone di progetti, che bollivano, bollivano e chiedevano spazio.
Fu così che, soprattutto per sua iniziativa, nel 1949 nacque il CTG, quel Centro Turistico Giovanile che affiancò la GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) come sua “opera nazionale” soprattutto nei servizi turistici destinati ai giovani, analogamente a quello che, nel campo dell’attività sportiva, faceva il CSI (Centro Sportivo Italiano), fondato cinque anni prima da Luigi Gedda.
Primo presidente del CTG fu Carlo Carretto, presidente nazionale della GIAC; dopo di lui tutt’e tre i successivi presidenti del CTG (Mario Rossi, Enrico Vinci e Silvio Betocchi) assunsero quella carica in quanto presidenti della GIAC. Ma la vicepresidenza operativa fin dal primo momento, e per tutto questo periodo, fu affidata ad Enrico Dossi.

Novembre 1961: il Consiglio Nazionale del CTG è stato appena ricevuto dal Presidente della Repubblica Gronchi; il prof. Dossi è in prima fila, quinto da destra.
Dossi si tenne prudentemente da parte nel 1953, quando uno scontro violentissimo che, in vista delle elezioni amministrative di Roma, oppose il presidente del Consiglio De Gasperi a Pio XII; Papa Pacelli, terrorizzato dall’ipotesi che ad un comunista venisse attribuita la carica di sindaco della Città Sacra o magari che davvero i Cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in Piazza S. Pietro, voleva che la DC facesse lista unica con il MSI, quella destra italiana che ancora era imbottita di fascisti reduci dalla Repubblica di Salò, o che comunque erano responsabili di autentici crimini perpetrati durante la guerra finita da pochi anni. De Gasperi disse di no, con un dolore pesante come la sua determinazione: un dolore che lo portò alla morte, l’anno dopo, nell’agosto del 1954. La direzione della GIAC, con Carretto e don Arturo Paoli in testa, si schierò con De Gasperi e venne liquidata da Pio XII.
Dossi continuava a impiegare la sua incredibile capacità di lavoro per il “suo” CTG, che lo elesse presidente nazionale nel congresso nel 1963 alla Domus Pacis di Roma, alla presenza del presidente del Consiglio Aldo Moro.
Sia da vicepresidente che da presidente, Dossi lavorò girando il mondo in lungo e in largo e al tempo stesso investendo i ricavi dell’attività del CTG in sempre nuovi stabili; contattò capi di stato e personaggi di tutti i calibri: Pio XII lo riceveva regolarmente.
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Il Prof. Dossi, inopinatamente, si dimise da Presidente del CTG nel 1967, quando il CTG era all’apice: circa 90 case di vacanze, più due villaggi turistici: uno ad Acerno, in Campania, uno a Pian degli Ontani, in Toscana. E da Roma venne via senza che, almeno apparentemente, nessuno se ne accorgesse; nessuno di quei tanti (organizzazioni cattoliche e singoli personaggi) che alla sua morte avrebbero pubblicato, su Avvenire e su altri giornali, pagine di “partecipazione al dolore” (dolore … di chi, poi?).
Da Roma si stabilì a Spello, accolto dal suo grande amico don Giancarlo Sibilia, Priore della locale Comunità dei Piccoli Fratelli e dal 1970 prete e parroco della Parrocchia di Limiti di Spello. Da Spello Enrico Dossi poté frequentare l’Istituto Teologico di Assisi, dove fece conoscenza con Ennio Antonelli e si entusiasmò per come il giovane docente insegnava la teologia dogmatica.
Due domande s’impongono a questo punto del mio racconto.
Prima domanda: che fine ha fatto l’enorme patrimonio del CTG, che all’apice della sua storia aveva a Roma la sua sede nientemeno che in Via Nazionale? In merito a questo argomento non sono riuscito a strappare dalla bocca di don Enrico non dico una parola, ma nemmeno un’allusione generica; e sì che quando dava la stura ai ricordi era come un fiume in piena; ma su questa materia … silenzio assoluto.
Avanzo un’ipotesi, certo che corrisponde a verità: il patrimonio del CTG, che in ultima analisi era proprietà della Santa Sede, dalla Santa Sede venne venduto per pagare le spese enormi del Concilio. Papa Giovanni aveva fatto venire 2.500 Vescovi da tutto il mondo, ma molti di loro non avevano i soldi nemmeno per farsi risuolare le scarpe (con la fibbia). Me l’ha detto qualcuno che non era don Enrico, io ci credo: gli si mangiarono tutto quello che aveva messo insieme, a beneficio dei giovani, in 18 anni di lavoro stressante, ma condotto con una managerialità eccellente. E lui non lasciò che trapelasse nemmeno un accenno a quella vicenda. Grande!
Seconda domanda. Come mai, dopo l’esperienza della Parrocchia di Limiti di Spello, dopo aver brillantemente completato gli studi di teologia, Enrico Dossi volle venire a vivere con noi di Capodarco, e non in una sede qualunque, ma a Gubbio? La scelta di Gubbio la si capisce: chiunque sia passato anche fugacemente nella città dei Ceri vorrebbe tornarci a vivere; poi magari, una volta conosciuti i nostri difetti, se ne pentirebbe.
Ma … e la scelta di Capodarco? Ricorderete credo- che don Franco Monterubbianesi, a metà degli ani 60, alla disperata ricerca di una sede per la comunità alla quale aveva in mente di dar vita, contattò il Prof. Dossi, che si rivelò immediatamente disponibile, e l’anno stesso uno dei suoi “alberghi” (case di vacanza), Villa Piccolomini, alla periferia di Capodarco di Fermo, divenne Casa Papa Giovanni. Qualcuno pensò: bella forza, villa Piccolomini è un rudere, e Dossi se ne libera!. Un rudere, ma non ci voleva molto per riportarla ad un gioiello. E poi tutt’intorno un bosco fitto grande, e un’intera collina che offriva indefinite ma importantissime possibilità di sviluppo… ”Se ne liberò?”: ma vvah! Aveva piuttosto maturato, l’ex presidente dell’ex CTG, una grande stima per Capodarco e il suo qualificarsi come “lotta contro l’emarginazione” (in particolare quella, del tutto indifendibile, degli invalidi fisici), lui che, di emarginazioni, sul piano personale ne aveva sofferta una del tutto particolare: un’emarginazione santamente brutale, la liquidazione dell’enorme patrimonio che egli aveva messo insieme perché il turismo dei giovani fosse una cosa sana e intensa.
Fu così che il prof. Enrico Dossi, lodigiano, esponente di spicco del cattolicesimo italiano, ci si presentò a Fabriano, in cucina, proprio il giorno che il primo gruppetto consistente partiva per Gubbio, nel giugno del 1974, sulle tracce dei pionieri che il convento sul monte l’avevano raggiunto a metà maggio.
58 anni. Di voglie il prof. ce ne aveva un’altra, dentro: una gran voglia di fare vita comune con noi, con gli emarginati, di vivere con, lui che ai livelli più alti della vita ecclesiastica aveva vissuto per: per la Chiesa, che amava davvero, per i giovani che a migliaia aveva aiutato a diventare liberi e forti. Ma a vivere con soggetti disabili ed emarginati assortiti non ci sarebbe riuscito, dato e non concesso che qualcuno ci sia mai riuscito fino in fondo; non ci sarebbe riuscito perché i famigerati “anni dell’onnipotenza” che lui aveva vissuto ai vertici dell’onnipotenza l’avevano segnato a fondo.
Venne dunque con noi a Gubbio nel ’74; si attivò immediatamente, ma la sua impellenza in quel momento era un’altra: voleva diventare prete. La preparazione l’aveva completata fra Assisi e Spello, il Vescovo di Prato, Mons. Fiordelli l’avrebbe ordinato e incardinato nella sua diocesi, ma con la più ampia possibilità di movimento. Nell’autunno di quello stesso anno il prof. Dossi diventò don Enrico Dossi.
A S. Girolamo, instancabilmente attivo, ci vivrà solo fino al 1978, quando partirà per il Brasile. Era giunto a maturazione un progetto missionario pensato da anni con certi amici veneti, ma … c’era dell’altro .
C’erano i crescenti battibecchi tra lui e me, tra lui e Clara sulle cose da fare, sulle priorità, sulle modalità; solo con Silvana andava sempre d’accordo. “sempre”:… quasi sempre.
E c’era la sua sofferta impossibilità a tollerare le frequenti e defatiganti discussioni comunitarie, che volevano dare spazio a tutti e si rivelavano sempre logorroiche, quasi sempre inconcludenti, “Gnugnoni” le chiama Franchino, dove c’è sempre uno che capisce fischi per fiaschi e un altro che capisce fiaschi per fischi.
In quel crogiolo vivace ma piccolo doveva entrare la sua vitalità debordante, con tante idee grandi, ma anche con un’allergia invincibile di fronte alle decisioni da prendere insieme.
Un episodio. Da mesi si discuteva sull’opportunità di acquistare un gruppo elettrogeno, visto che la linea elettrica alla quale ci alimentavamo era particolarmente esposta ai repentini mutamenti di clima. Quando l’improvvisa mancanza di corrente lo beccò all’interno dell’ascensore, e per far scendere la cabina a pianterreno Tonino Scavizzi, a forza di girare a mano l’apposita rotellina, c’impiegò una buona mezz’ora, Don Enrico uscì dall’ascensore con una faccia da tregenda e senza una parola si fiondò diritto sull’ufficio, afferrò il telefono, compose un numero: “Portate su un gruppo elettrogeno!”
Ce la fai ad andare d’accordo con lui? mi chiese una domenica sera Carlo Carretto, mentre in macchina lo riportavo al S. Girolamo di Spello dal S. Girolamo di Gubbio. Ci aveva trattenuto sulla gloriosa storia della GIAC, della GIAC sua, e di Mario Rossi, e di don Arturo Paoli. Carlo Carretto, un mito per noi ragazzi dell’immediato dopoguerra. Un mito anche se solo di rimbalzo, perché nel 1948, quando lui, da Presidente della GIAC ne convocò la prima assemblea a Piazza S. Pietro, io avevo solo dieci anni, ma tra i 500.000 ragazzi, tutti col basco verde, che da tutta Italia raggiunsero Roma, spesso con mezzi di fortuna, sette/otto vecchi banchi di legno sul cassone di un vecchio camion anteguerra, c’erano anche i miei due fratelli maggiori, Ubaldo e Bruno. Carretto dette loro la carica, li gasò, ne conquistò il cuore per sempre, ed essi tornarono da Roma irreversibilmente cattolici e democristiani.
Poi Gedda, Presidente Nazionale di Azione Cattolica e inventore di quei Comitati Civici che il 18 aprile 1948 avevano fruttato il trionfo alla DC, con il beneplacito di Pio XII, che voleva che l’Azione Cattolica si spostasse verso destra, lo aveva fatto fuori, insieme con Mario Rossi e don Arturo Paoli. E Carretto aveva ripreso a seguire il Signore da quota zero: prima era andato a lavorare come minatore in Sardegna, poi era entrato tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, che proprio in quegli anni P. René Voillaume stava rilanciando da zero, letteralmente, perché Charles de Foucault era stato ammazzato nel deserto africano da uno dei suoi cari Tuaregh quando aveva finito di scrivere la regola dei Piccoli Fratelli di Gesù, ma ancora non aveva nemmeno un seguace.
I Piccoli Fratelli io li ho sempre sentiti molto vicini, anche se dovrei guardarli sempre e solo dal basso verso l’alto. La loro scelta di fondo è la scelta di dare testimonianza all’Uomo di Nazareth preferibilmente in “luoghi prescelti”, dicono loro; e per “luoghi prescelti” loro intendono quelli dove vivono i poveri più poveri. Ci vanno a vivere e per principio rinunciano a predicare. Si limitano a testimoniare; tacciono, in attesa che qualcuno chieda loro il perché di quella scelta; solo allora lo dicono a chiare note: perché questa è stata la scelta del Maestro. In fondo è lo schema di evangelizzazione proposto da Pietro, o comunque da quell’anonimo cristiano che ha scritto la seconda delle lettere attribuite a lui: Siate sempre pronti a rendere ragione della vostra speranza. Li ho sempre sentiti vicini, i Piccoli Fratelli, perché anche la spiritualità di noi cattolici militanti dentro Capodarco si muove su questa linea ideale, e fa riferimento al Gesù condividente, che per trent’anni si limita a condividere (e per di più a Nazareth, “il paese degli scemi”, cfr Bartolomeo/Natanaele!) e per tre anni spiega perché vale la pena di condividere..
Quel giorno il discorso che ci aveva tenuto il Piccolo Fratello di Gesù Carlo Carretto era stato travolgente. Ma la domanda che mi rivolse mentre, in auto, la sera, lo riportavo a Spello, da una parte mi lasciò come interdetto, perché intuivo che delle lotte piccine si erano verificate anche all’interno di quell’ambiente della GIAC che avevo mitizzato più di ogni altro, dall’altra, mi rincuorava nelle mie “prese di posizione” opposte a quelle di don Enrico Dossi, incrementava quel gusto acre e forte che provavo quando riuscivo a mettere in riga, o anche semplicemente mi illudevo di aver messo in riga, un uomo come lui, con quel passato, io che di passato (in termini ecclesiastici) ne avevo tanto poco, e di futuro ancora di meno.
Ho già accennato a come, nel 1978, tornò attuale un suo vecchio progetto missionario, sognato anni prima con alcuni amici della stessa sensibilità cristiana (ho sempre sentito parlare del Sindaco di Pieve di Soligo): realizzare in Brasile, alla foce del Rio delle Amazzoni, una Comunità di Preghiera nel cuore del lebbrosario di Macapà, nei pressi di Marituba, cittadina alla periferia del capoluogo dello stato del Parà, Belem.
Il lebbrosario, funzionale e moderno, era stato realizzato da un altro suo grande amico, Marcello Candia. Il beato Marcello Candia fu prima imprenditore, poi missionario. Laureato in chimica, farmacia e biologia, in venticinque anni di attività fece della sua azienda la leader nella produzione di anidride carbonica. Poi decise di vendere tutto per costruire l’ospedale di Marituba. Alla sua morte (nel 1983) erano 14 le opere alle quali aveva dato vita, quasi tutte nelle favelas: ospedali, lebbrosari, centri sociali, due conventi di clausura, una scuola per infermiere e un centro di accoglienza per handicappati.
Dal Brasile Don Enrico tornò nel 1982, e fece in tempo a portare a S. Girolamo Marcello Candia, poco prima che morisse. Non gli riservammo una grande accoglienza, riuscimmo a mettere insieme un gruppetto di persone per dire Messa con lui, nel corridoio sud, semibuio, con la piccola Augusta Marini che disturbava in continuazione.
Dal Brasile don Enrico era tornato con un grande rimpianto, lo ripeteva spesso, che gli mancava Maria la pretiña, una donna alla quale la lebbra aveva mangiato gran parte del corpo, ma che non solo non aveva mai, nemmeno per un momento, perso la sua serenità; secondo lui Maria era una mistica di prim’ordine, con il suo vivere totalmente immersa in Dio.
In quello stesso 1982 un altro suo grande amico, il futuro cardinale Ennio Antonelli, allora fresco Vescovo di Gubbio, gli affidò la Parrocchia di S. Pietro, al centro di Gubbio. Don Enrico Dossi, come sempre, il nuovo incarico lo prese di punta: lasciò la Comunità e si dedico anima e corpo alla sua parrocchia: portò avanti per 14 anni un’attività frenetica, fino sulla soglia degli 80 anni d’età, dal 1982 fino al 1996; ristrutturò completamente la canonica, trasformò in una dimora di gran lusso quel mezzo tugurio che era la casa parrocchiale, rimise in sesto i tetti del complesso (più di 1.000 mq); quanto a quella splendida chiesa camaldolese di San Pietro, consacrata nel 1527 (l’anno in cui i lanzichenecchi saccheggiarono Roma!), fu lui a dotarla di due impianti di primissima qualità: l’impianto perfetto d’amplificazione e quello di illuminazione. E la sua attività di parroco fu intensissima, addirittura frenetica.

Tra le attività di punta di Don Enrico come Parroco di San Pietro, ci fu un rapporto stretto con il Santuario di Medjugorje; qui è ritratto durante una funzione mariana alla quale partecipa anche uno dei francescani del famoso Santuario.
Centinaia i chilometri percorsi da Pasquale Di Chiara, che si portò dietro da S. Girolamo come sagrestano e che girò in lungo e in largo la Parrocchia per portare a domicilio gli avvisi più svariati indirizzati a parrocchiani, compresi gli auguri per i compleanni.
Centinaia anche I milioni di lire spesi da don Enrico per S. Pietro.
Con quali soldi? Sniffando con la dovuta non chalence, seppi da certi suoi amici di Roma che don Enrico possedeva anche un George Rouault, dalla cui vendita ricavò una grossa cifra, cospicua ma certamente insufficiente. Beh! Ci voleva ben altro che un Rouault per pagare tutto questo.
Ma all’orizzonte c’era l’inconfondibile silhouette di Oscar Luigi Scalfaro. Ci voleva ben altro, e … c’era ben altro!

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro all’interno della casa parrocchiale di San Pietro, durante una delle sue visite a Don Enrico; dietro lo stipite della porta si coglie il dolce profilo dell’ins. Fernanda Costantini, che negli ultimi, dolorosissimi anni della sua esistenza, avrebbe assistito Don Enrico in maniera assolutamente esemplare.
L’altro: Oscar Lugi Scalfaro, futuro Presidente della Repubblica. L’amico del cuore. Aveva un paio d’anni meno di lui, ambedue avevano militato ai vertici dell’Azione Cattolica nell’immediato dopoguerra; erano stati due dei tre coordinatori della GIAC per il Nord Italia: “Io per la Lombardia, Scalfaro per il Piemonte, Nilde Iotti per l’Emilia Romagna”, con appena un sorriso di rimpianto sul volto.
Scalfaro e Dossi s’erano laureati ambedue alla Cattolica, Scalfaro in giurisprudenza, Dossi in Filosofia, “con una tesi su Machiavelli”.
Ebbene, nel 1983, l’anno dopo che don Enrico ebbe preso possesso della Parrocchia di S. Pietro, Scalfaro divenne Ministro dell’Interno, e lo rimase fino al 1992, due volte con Craxi e una volta con Fanfani; e come ministro dell’interno aveva a disposizione una grossa cifra mensile (si parlava di 100 milioni di lire) da spendere senza doverla rendicontare. Quanti di quei milioni siano finiti sui tetti o dentro la chiesa di S. Pietro … : certamente molti!
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Nel 1996, solo nella sua casa parrocchiale, fu colpito di sera da un’emorragia cerebrale che, curata subito, non gli avrebbe arrecato alcun danno, ma la mattina dopo era diventata devastante. L’ictus lo immobilizzò parzialmente, costringendolo in carrozzina, ma soprattutto gli tolse la parola. Cocciuto. Aveva voluto abitare da solo la casa canonica di S, Pietro, solo, snobbando ogni esortazione di Antonietta (la dr. Botta) in senso contrario. Cocciutissimo. L’ha pagata carissima, la sua cocciutaggine, perché l’emorragia progressiva solo dopo molte ore di solitudine gli causò la perdita della parola.
La perdita della parola! Nulla di peggio poteva capitare ad un affabulatore nato come lui, che della sua ricchissima vita raccontava un episodio via l’altro, un torrente di ricordi, una moltitudine di eventi e di volti.
Otto anni durò quello strazio, durante il qual ben due volte il suo amico Oscar Luigi Scalfaro venne a fargli visita. Anche a lui, come a tutti, don Enrico stringeva forte la mano, senza riuscire a dire nemmeno una parola, e le lacrime gli inondavano il viso.

Ottobre 1999: per celebrare il 25° anniversario della sua prima messa, Don Enrico ha voluto con sé, nella Cappella del Seminario, il Vescovo Bottaccioli, Don Sergio Mangoni, Padre Martin e Don Angelo.
È morto il 22 febbraio 2004. Don Angelo dice di avere un groppo alla gola: il 22 febbraio del 2014 nessuno di noi della Comunità, nessuno dei suoi parrocchiani di S. Pietro s’è ricordato che quel giorno erano 10 anni dal suol ritorno a Dio. Rimedieremo.