Gli Impegni

L’impegno per il volontariato
Quando, nel 1970, scoprì Capodarco e perse la testa per quella esperienza, immediatamente don Angelo sentì fiorire e crescere intorno a sé un volontariato imponente. I ragazzi del Movimento Studenti Eugubino (l’ultima mandata) scoprirono con lui Capodarco nell’estate del 1970 e da subito, e anche durante l’anno scolastico 1970/71, tornarono a lavorarci almeno una decina di volte, e poi di nuovo, e di nuovo, finché non decollò la Comunità “La Buona novella” di Fabriano. Leader assoluto di quella “manicchia” di splendidi ragazzi era Lucio Lauri: scuro di carnagione, ossuto, infaticabile, deciso.
Epica l’esperienza fatta tra il 30 ottobre e il 4 novembre 1971: i ragazzi di Gubbio s’incaponirono al voler finire la gettata che fa da base all’attuale, bellissima Sala da Pranzo di Casa Papa Giovanni, che si affaccia verso il mare di Porto S. Giorgio, e quando fu chiaro che con 8 ore di lavoro al giorno non ce l’avrebbero mai fatta, decisero di alzarsi alle 4 del mattino e coinvolsero anche il capo/muratore Antonio, che accompagnò il suo faticato assenso con qualche buon moccolo nell’orribile lingua della Marca sporca.
Delle dimensioni e della qualità del volontariato che si coinvolse nella costruzione dei due edifici della Comunità, quello di Fabriano (1971-1974) e quello di Gubbio (1974-1984), si parla diffusamente nel sito della Capodarco Umbria.
Dopo tanta esperienza pratica, era giusto aggredire il problema anche sul piano teorico.

Bisognava:
1. CHIARIRE IL DISCORSO SUL PIANO TEORICO e al tempo stesso
2. OFFRIRE AL VOLONTARIATO UNA STRUTTURA DI SUPPORTO.

LA CULTURA DEL VOLONTARIATO e DEL PRIVATO SOCIALE

Ne parliamo in senso generalissimo, come prestazione gratuita motivata o dalla necessità in cui vivono i meno fortunati o dalla nobiltà di un’azione che ci ha favorevolmente colpito e coinvolto.

 

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VOLONTARIATO, CIOÈ:

Il volontariato di sempre.
Nel settore dell’esperienza religiosa, che è quello che conosciamo meglio, il volontariato è sempre esistito, sia a livello informale (furono “volontarie” le donne che seguivano Gesù e i suoi dodici e provvedevano alle loro necessità primarie), sia a livello organizzato (era composto di tutti volontari il “Collegio dei Sette Diaconi” che venne istituito nella prima Chiesa di Gerusalemme).
E da sempre le tantissime forme di volontariato hanno avuto una prima fase, del tutto informale, e una seconda fase, in cui si sono strutturate, si sono date un’organizzazione, magari a livello minimo.
Sono nate così tutta le organizzazioni volontarie d’ispirazione cristiana: le Misericordie nel sec. XIV-XV, le Conferenze di S. Vincenzo, sia quelle ispirate direttamente dal Santo francese nel 1600, sia quelle riformulate da Federico Ozanam nel 1800.
Ma sono nate così anche le laiche Croce Rossa, Amnesty Iternational, Green peace, il Tribunale per il diritto del malato, Emergency, ecc.

Il volontariato di oggi
Quanti sono i volontari in Italia: 3, 4, 6 milioni? Dati precisi per un fenomeno dai contorni così labili (associazioni formali e informali, registrate e non registrate, gruppi a tempo, ecc.) non sono possibili, ma il suo peso sociale crebbe progressivamente a partire dalla metà del sec. XXI.

In tempi recenti si è verificato un fenomeno di questo tipo: il numero delle associazioni è cresciuto, ma è diminuito il numero dei membri di ogni singola associazione.
Nel suo insieme il “fenomeno volontariato” si è stabilizzato dal punto di visto del numero complessivo degli aderenti, ma la sua presenza nella società sembra piuttosto impallidita.

Volontariato e volontariati
Secondo lo schema messo a punto da don Angelo in Italia esistono tre forme di volontariato:

1. il volontariato del tempo libero
È la forma di volontariato di gran lunga più diffusa (si pensi solo a quanta gente presta la sua opera gratuita per organizzare le sagre di paese).
Il suo livello ideale è stato così puntualizzato dalla FIVol (Federazione Italiana del Volontariato): il volontario è un cittadino che (dopo aver assolto i doveri del proprio stato) dedica gratuitamente una significativa parte del proprio tempo, con continuità e competenza, ad iniziative di rilevanza sociale, umana o culturale.
In questa definizione l’angolazione è civile, (un cittadino) e al tempo stesso morale (“dopo aver assolto i doveri del proprio stato”); e questo esclude da questa collocazione le Comunità religiose, perché in esse non è specificamente presente la dimensione civile.
Le caratteristiche essenziali sono la gratuità della prestazione; la consistenza percentuale dell’impegno volontario sul totale del tempo di vita che vi si impegna; la continuità nel tempo; una qualche competenza, proporzionata alla natura più o meno semplice della situazione personale di chi s‘intende aiutare.

2. il volontariato della cittadinanza
Materialmente si tratta di una specie del volontariato del tempo libero, ma in esso la dimensione civile è non solo presente e determinante, ma definitoria: dalle scelte operate dai membri delle associazioni classificabili come “Volontariato della cittadinanza” emerge una figura di protagonista della vita civile assolutamente nuova, un soggetto che, nel suo rapportarsi con la società al cui interno vive, ha spostato in avanti l’asse complessivo dei diritti e dei doveri: i diritti, di cui si sente titolare, e i doveri, ai quali si sente obbligato, non sono quelli che la coscienza media del suo tempo recepisce come tali; nella sua coscienza e nella sua prassi sia i diritti dei quali si sente titolare sia i doveri ai quali si sente obbligato si dispongono su una linea che, rispetto alla cultura dominante nel suo tempo, è nettamente più avanzata. Pensate al WWF, ad Amnesty International, a “Beati i costruttori di pace”, al Tribunale per i Diritti del Malato, e anche ai “Girotondini”, ai “No global”, ad “Emergency” di Gino Strada, a Médicine sens frontières di Carlo Urbani.

3. il volontariato della condivisione
I membri della nostra congregazione vivono tra la gente non per diventare i pastori o le guide ma semplicemente per essere i loro fratelli. Questa comunione di vita è la loro testimonianza propria, la loro partecipazione alla missione della Chiesa: sono parole di P. René Voillaume.
Giovane sacerdote, nel 1933 recupera il progetto della vita totalmente condivisa con poveri come valore evangelico supremo; un progetto che aveva concepito senza mai poterlo realizzare, Charles de Foucauld (+ 1916), il chicco caduto a terra nella solitudine che germina una grande posterità; e nella basilica parigina del Sacro Cuore a Montmartre, insieme ad altri quattro uomini di fede, dà inizio alla famiglia religiosa dei “Piccoli fratelli di Gesù”, stabilendosi quindi con i suoi primi confratelli a El-Abiodh, nell’Algeria del Sud. È un cristianesimo che passa attraverso il deserto, povero tra i poveri. Alle fraternità nel Sahara, nel mondo musulmano, seguiranno quelle in altri “deserti”, a partire dal mondo operaio in Francia (1947) e poi nei luoghi più abbandonati. I piccoli fratelli e le piccole sorelle della piccola sorella Magdaleine, dispersi nei “deserti” del mondo, trovano nella preghiera il cuore della loro vita. Vanno a condividere. Non predicano, ma se qualcuno chiede loro il perché i quella loro scelta, allora gliela rivelano. È quel modello spirituale di semplicità e di abbandono totale nelle mani di Dio che a metà del sec. XX è in grande auge, quello degli scritti e della vita di santa Teresa del Bambino Gesù, il cui nome viene da Voillaume molto spesso accomunato a quello di fratello Charles.
È così che nasce il volontariato della condivisione.
Le Comunità di accoglienza, in primis la Comunità di Capodarco, ne hanno fatto uno dei perni (l’altro perno è l’autogestione) del loro progetto di vita e di accoglienza, che si qualifica come promozione della persona, con particolare attenzione agli emarginati. Le Comunità di accoglienza puntano su soggetti che intendono vivere la solidarietà come vita quotidiana condivisa con gente in difficoltà, e questa scelta è diventata la “forma” della loro vita: la condivisione per essi non è un otpional di lusso, la ciliegina sulla torta, il vezzo della domenica, una parentesi magari anche lunga, ma sempre parentesi.
Ne è nata la figura che don Angelo ha chiamato OPERATORE DI CONDIVISIONE: anche se dal suo servizio questo tipo di volontario ricava il necessario per il suo sostentamento, il bisogno altrui non interessa solo e tanto la sua professionalità, bensì attraversa, in tutta la sua larghezza, l’intera sua esistenza, pubblica e privata.
La necessità di una figura del genere nasce a Capodarco dall’incontro con disabili che chiedevano e chiedono non solo terapia fisica e inserimento lavorativo, ma anche e soprattutto una famiglia vera e propria, non semplicemente un “clima familiare”. La possibilità di un amore, ove possibile. Una famiglia.
Non si può dare un sasso a chi chiede un pane, né un serpente a chi chiede un pesce. Non si può dare un servizio a chi chiede una famiglia. Non ci si può limitare a mettere un operatore a ore a disposizione di chi chiede un padre, un fratello, una sorella, una madre.
Non si può contrabbandare come “La forma più alta d’amore” la condivisione del cuore, così facile, così gratificante per chi la pratica; non la si può sostituire alla condivisione del cesso, che sembra volgare a chi è nato con la puzzetta sotto il naso e ignora l’esistenza di quei… locali volgari.
Volgare lo è proprio il cuore, quando questa pompa presuntuosa pretende di sostituire la vita.
Questa forma di volontariato è stata sempre minoritaria. Non l’hanno praticata nemmeno buona parte delle Suore della Carità; esse fanno scelte, magari eroiche (non hanno orario,non misurano le fatiche enormi che affrontano ogni giorno al servizio dei più poveri), ma con quelle scelte esse dicono: “Io ti rendo tutti i servizi che la dignità della tua persona esige, però sia ben chiaro che questo è il tuo ospizio, quella è la casa delle suore; appena un passo più in là, ma “senza confusioni”. E poi quando si decide, tu ascolti e basta.
Negli ultimi tempi, grazie al dilagare delle cooperative sociali (per tante parte meritorie), questa forma di volontariato è andata scomparendo, anche nella mia comunità di Capodarco dell’Umbria . Bravissimi operatori, ma sia chiaro che se la difesa della mia privacy lo esige, spunta anche il cartello Hic sunt leones. Sarà possibile invertire la rotta?

PRIVATO SOCIALE, CIOÈ
Quest’ultima forma di volontariato ci introduce nel “privato sociale” e ne rappresenta una delle forme apicali.
Esiste un “privato speculativo” che, nel clima odierno, così infantilmente neoliberista, tende a fare la parte del leone anche nei servizi socio/sanitari, quando si candida a offrire buoni servizi gestendoli a titolo di profitto là dove il Pubblico ha offerto pessimi servizi ufficialmente offerti a titolo di bene comune.
Tutt’altra cosa è il “privato sociale”: esso sta ad indicare l’insieme delle iniziative che, a vantaggio dei ceti più deboli, non vengono promosse dagli organi dello Stato, ma nascono “dal basso”, dal volontariato, dalle sue motivazioni ideali.
Del volontariato non ha, né può avere, la gratuità economica: se uno dedica tutta la vita ad un’operazione di questo genere, bisogna che abbia pure di che vivere, senza preoccupazioni.
Storicamente il diagramma evolutivo della nascita del privato sociale è sempre stato lo stesso:
Prima fase: dimensioni ridotte, funzionamento informale ed estemporaneo. Forte la coesione interpersonale intorno agli obiettivi comuni e l’”adesione culturale” alla causa comune; forte il coinvolgimento di tutti in tutte le attività. Struttura organizzativa minima. Snobbati procedure e regolamenti..
Seconda fase: l’ente cresce, fisiologicamente (più utenti, più servizi, più personale), diventa forte la pressione a cui vengono sottoposte le risorse, nelle persone si attenua l’originario spirito “missionario”, si riduce la capacità di dare una risposta al bisogno interno; malessere interiore; sfiducia nell’organizzazione; in diversi ritirano il proprio consenso, calano sia le disponibilità finanziarie che la linfa vitale.
Terza fase: o l’organizzazione riesce a trovare stimoli e strade per entrare in una fase meno pionieristica e più matura, Nel terzo settore è sempre stato elevato il tasso di natalità e di mortalità degli enti. L’organizzazione sopravvive solo se articola nuove priorità strategiche, se la sua struttura organizzativa si differenzia su più livelli gerarchici e linee funzionali, se si adottano strumenti tipici di gestione quale la programmazione ed il controllo, si riduce lo spazio dell’improvvisazione, ci si dà un metodo (verifiche continue). La suddivisone dei compiti avviene sempre di più in base alle competenze, alle attitudini ed alle esperienze; ai compiti vengono fatte corrispondere precise responsabilità. Cresce la professionalità.
o Quarta fase: l’organizzazione non profit si dà un suo management, come tutte le imprese serie, nel contesto (naturalmente) delle caratteristiche peculiari dell’ente, che è pur sempre un ente dalle finalità non lucrative, nato e strutturato su di una ragione non economica.

STATO E CHIESA DI FRONTE AL VOLONTARIATO E AL PRIVATO SOCIALE

Il volontariato e il privato sociale nascono dunque sulla base di forti motivazioni personali
Allo Stato non interessano queste motivazioni. Lo Stato, anche se deve attenersi a quella moralità media dei cittadini che esso rappresenta, non ha dei valori suoi, lo “Stato etico” di Hegel è morto da un pezzo.
Allo Stato interessa (o… dovrebbe interessare) il risultato di quelle motivazioni, la qualità della prestazione che esse producono, l’impatto che esse hanno nel sociale.
Esempio. Lo Stato, anche quando si prende cura dei ritardati mentali, non potrà mai chiedere ad un suo dipendente di andare a vivere coi ritardati mentali, dentro una comunità di vita, anche se è proprio questo quello che chiedono (esplicitamente o, più spesso, implicitamente) gli “utenti”. Lo Stato può e deve esigere dai suoi dipendenti, ai quali demanda la cura dei meno fortunati, professionalità, buona educazione, delicatezza, non certo atteggiamento oblativo e disponibilità a 360°.
In altre parole, lo Stato non ha gli strumenti, ideali e operativi, per far fronte a bisogni che esigono un alto spessore d’umanità, e presuppongono una decisa volontà di instaurare con chi fa fatica in ogni caso un rapporto da persona a persona, e presentano pieghe dentro le quali l’elefante/Stato non può penetrare. Ai nostri giorni le richieste che vengono dalle fasce deboli non solo sono aumentate di numero, ma si sono fatte sempre più esigenti, e domani (ce lo auguriamo con tutto il cuore, per il bene di tutti) nessuno si accontenterà più di sopravvivere, ma vorrà, com’è giusto, accedere anche a quei beni immateriali che “fanno” la qualità della vita.

Nella linea della valorizzazione del “Privato sociale” da sempre si è mossa la dottrina sociale della Chiesa, con quel ”Principio di sussidiarietà”, che oggi hanno fatto proprio molti altri soggetti politici (la Regione Umbria, ad esempio, che lo ha inserito nel suo nuovo statuto). Il principio di sussidiarietà afferma che, nell’intervento a favore della fasce deboli della popolazione, là dove può intervenire l’organizzazione più vicina al portatore del bisogno, non s’intrufoli l’organizzazione più a largo raggio, ma più lontana; questo vale sia per la filiera degli organi dello Stato (quello che può fare il Comune non lo faccia la Provincia, quello che può fare la provincia non lo faccia la Regione, quello che…) sia per le organizzazioni di sostegno ai deboli: quello che può fare l’Associazione delle Famiglie dei Disabili non lo faccia il Comitato per le Pari Opportunità. L’Ente di livello superiore, senza presumere di sostituirlo, offra aiuto (subsidium) all’Ente di livello inferiore, ma più vicino al problema: è la cosiddetta sussidiarietà verticale),
Il principio di sussidierietà è entrato nella nostra Costituzione Repubblicana, con la riforma del Titolo V; la legge 238 l’ha riconosciuto come fondamentale, la Regione Umbria l’ha inserito nel suo Statuto. Nella mia Comunità il protagonismo del disabile rappresenta la più forte delle garanzie in questa direzione. Che il portatore del disagio sia colui che inventa le soluzioni per batterlo; è il classico uovo di Colombo.
Per questo ai nostri giorni sono stati gli uomini della sinistra più accreditata, come il Centro per la Riforma dello Stato, fondato da Pietro Ingrao e diretto a lungo da Giuseppe Cotturri, a invitare il nostro tipo di “Privato sociale” a cambiare nome: “Voi non dovete più presentarvi come “Privato sociale”, ma come “Pubblico senza Stato”.
Lo Stato deve fissare i parametri sulla base dei quali distinguere il “privato sociale” dal privato speculativo, monitorare continuativamente i suoi comportamenti, chiedergli conto ad ogni passo.
E il “Privato sociale” autentico deve non solo riconoscere allo Stato questo diritto/dovere, ma deve sollecitarlo ed esigere che venga messo in atto.

LE MOLTE VALENZE DEL VOLONTARIATO E DEL PRIVATO SOCIALE
Dove individuare il valore del volontariato e del privato sociale?
La gente comune, resa edotta da certi anchor-men televisivi, dà del volontariato e del privato sociale una lettura eroico/individualista.
“Sono degli eroi!” gridò il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro in uno dei suoi Discorsi alla nazione di fine anno. “Sono degli eroi!”
Come se fosse un complimento. “Disgraziata la nazione che ha bisogno di eroi!”.
Siamo seri! Di Madre Teresa non limitiamoci a dire che è stata una donna eroica, diciamo anche che è stata un donna intelligente, che ha gustato il succo della vita, che non ha mai avuto crisi d’identità o esaurimenti nervosi. La vita è veramente pesante solo quando è insensata.
Considerato così, il volontariato “eroico” emargina chi lo pratica: non più per la tangente inferiore, ma si può venire sbattuti ai margini della vita anche per la tangente superiore: Vi ammiro talmente da esortarvi a continuare a fare quello che fate, anche al posto mio.

La prima di tutte le valenze del privato sociale è il benessere di coloro dei cui problemi ci si fa carico. Si fa del volontariato soprattutto perché si è convinti che coloro per i quali ci impegniamo ne traggano un giovamento. La cosa più importante sono sempre loro.
Sono troppe, soprattutto in ambito religioso, le realtà che accolgono a cuor leggero; non hanno una rete alle spalle; non possiedono una struttura abbastanza articolata, né professionalità consolidate; “confidano nella Provvidenza” (intesa nella maniera peggiore possibile, come alternativa alla competenza); puntano tutto sul “carisma del Fondatore” (tutti i carismi sono malattie, guaribili peraltro); pensano più alla formazione dei propri adepti che al bene (alla sicurezza, adesso e nel tempo) dei poveri ai quali aprono la porta.

– Subito dopo il benessere dei destinatari, tra le valenze del volontariato, viene il benessere dei volontari, la gratificazione personale: il volontariato, se uno ha interiormente maturato il senso della sua istanza di fondo e lo fa commisurando il passo alla gamba, è una ricca risposta al principio di piacere. Il principio epicureo del piacere dice che, alla lunga, uno fa sempre e soltanto quello che, fondamentalmente, gli piace. Il piacere in tutta la sua gamma: da quello impetuoso dell’incontro dei sessi all’alba della vita (dura poco), a quello stesso piacere quando la vita tramonta, a quello sottile del bibliofilo che accarezza un “in folio” della Biblioteca nazionale, a quello della passeggiata della persona anziana il primo giorno di primavera. Tutto sta a vedere come, e a quale tipo di piacere, questa coscienza s’è formata. I Santi avevano un gran piacere a fare quello che facevano, ma non mancavano i momenti di sconforto; anche i mafiosi, ma non mancano le tentazioni di pentimento.
“C’è più gioia nel dare che nel ricevere”: un detto che sicuramente risale a Gesù, anche se a riferirlo non sono i Vangeli, ma solo S. Paolo.

– Poi la rilevanza sociale. La nostra società è attraversata da troppi e troppo gravi conflitti: i processi pubblici sono sempre più spersonalizzanti, grazie a storture che tutti, più o meno, abbiamo supinamente accettato: la divisione del lavoro, la totale burocratizzazione dei rapporti intepersonali; in stridente contrasto contro la sfera privata che appare sempre più psicologicamente raffinata; l’esito più eclatante di questo conflitto è la cosiddetta “solitudine dello stadio”, che tanta gente vive con grande sofferenza; l’individualismo più esasperato si ripropone in continuazione, ma all’improvviso esplode, in particolari circostanze, un solidarismo sfrenato che in realtà è tribalismo selvaggio; l’aggressività viene neutralizzata ideologicamente ma quotidianamente alimentata. In maniera subdola. Si ripropone costantemente quella che gli esperti chiamano “la grande rappresentazione della vita”, cioè il “rimpianto dei valori”, ma poi al massimo si dà ascolto alla scienza e non alla coscienza; il potere viene messo in crisi nel senso tradizionale della parola, ma viene generalizzato ed esaltato il potere personale tramite la tecnologica.
Contro tutte queste degenerazioni il volontariato appare come un antidoto molto efficace.

– Poi la rilevanza politica: facendo del volontariato o del privato sociale serio si contribuisce a sperimentare e a praticare forme nuove e più efficaci di approccio al disagio. E così si qualifica ulteriormente l’individuazione e la realizzazione del bene della polis, che è l’anima della politica, in un settore altamente significativo, qual è quello delle fasce non protette.

Infine decisiva (a mio modo di vedere) la rilevanza culturale del volontariato e del privato sociale

LA VALENZA CULTURALE DEL VOLONTARIATO E DEL PRIVATO SOCIALE
COSTRUIRE L’ALTERNATIVA AL NOSTRO POVERO MONDO RICCO

Cultura. Parlando di “rilevanza culturale” bisogna innanzitutto mettersi d’accordo sul valore del termine “cultura”.
Nell’italiano parlato di oggi per cultura s’intende a volte il “saper molto”: l’uomo colto è colui che sa molte cose; ne sono convinte molte persone semplici, ma anche acclamati divi della televisione, per i quali le persone che gremiscono l’anticamera dei loro micidiali Quiz debbono dimostrare di sapere molte cose: che poi conoscano a fondo la filosofia platonica o abbiano mandato a memoria l’orario ferroviario, per loro non conta molto: i premi in denaro sono gli stessi, l’importante è che sappiano molte cose. Interpretazione minimalista e perdente: sul piano della quantità il più semplice dei computers batterà sempre e comunque il più informato degli “uomini di cultura”: le virgolette sono obbligatorie.

La parola “cultura” assume senso
1. sullo sfondo complessivo della condizione umana: l’uomo, almeno in parte, è chiamato ad autorealizzarsi in libertà; la cultura è allora l’insieme degli strumenti che un uomo o un gruppo sociale si dànno per autocoltivarsi: i fini che scelgono, i mezzi che adottano per conseguire quei fini, i valori che s’intravedono dietro quelle due scelte;
2. sullo sfondo dell’attività della mente umana che incessantemente organizza pensieri ed esperienze secondo determinati criteri ordinatori, conferendo loro una logica, un prima e un poi, un più importante e un meno importante, un più attuale e un meno attuale, a seconda dei valori che in quel momento vengono percepiti come determinanti.
Quale cultura a supporto delle scelte del volontariato e del privato sociale?
La scelta volontaria nasce sempre dall’interiore coniugazione di ribellione all’ingiustizia e di ricerca delle vie praticabili per costruire un mondo più giusto, a misura della dignità della persona.
Se quest’istanza anti/sistema manca, al volontariato, anche al più generoso, manca qualcosa di vitale. Non avrebbe senso alcuno aderire la mattina a una manifestazione razzista e dedicare il pomeriggio ai malati. Come non ha senso sfruttare i propri dipendenti tutta la settimana per dedicare il week-end alle pesche di beneficenza. Nella coscienza moderna o l’impegno volontario s’inserisce in una grande prospettiva di ripensamento e ridefinizione globale dei rapporti che vigono tra gli uomini, o rischia di ridursi ad un pannicello caldo. Ieri, quando la gente comune faticava dall’alba al tramonto per mettere insieme il pranzo con la cena, il volontariato più diffuso era quello delle signore della buona società, che, soccorrendo i “poverelli”, a volte davano una mano al marito (banchiere o uomo di governo) a perpetuare quel certo sistema sociopolitico che di “poverelli” ne produceva a volontà. Nancy Reagan zompettava in giro per il mondo ad organizzare la giornata mondiale contro la droga, mentre il suo Ron, sbracciandosi ad esortare i ricchi ad arricchirsi ancora, assicurava al flagello della droga il liquido di cultura ideale per crescere e moltiplicarsi.

E allora
1. Il volontariato moderno e il privato sociale non possono non percepire, alla radice dei problemi dei quali essi curano alcuni effetti, un disagio epocale di dimensioni enormi.
2. Il volontariato moderno e il privato sociale devono rivendicare a se stessi non solo la possibilità di una partecipazione attiva, ma un ruolo-guida nei processi di rinnovamento che tutti auspicano.

Una cultura antitetica rispetto a quella vincente.
La cultura di oggi ha tanti volti, perché tutto ai nostri giorni è complesso e sfugge ad ogni semplificazione; molti di questi volti sono costati lacrime e sangue, e hanno uno spessore grandemente positivo; ma è innegabile che i tratti prevalenti di questa cultura sono l’individualismo, il falso egualitarismo e il consumismo.
In “brodo di cultura”, a contatto con questi dis/valori, tutti ci viviamo immersi: ognuno di noi da una parte la subisce e contribuisce a perpetuarla, dall’altra, se ha un minimo senso del bene comune, deve contestarla.
Il volontario di inizio terzo millennio, per un’intrinseca sua necessità, non accetta quella cultura.
Chiariamoci: individualista: individuo e persona materialmente indicano la stessa realtà: l’uomo come centro di dignità e di valore; ma il personalismo sottolinea che, tra le caratteristiche di questa realtà, c’è una totale apertura all’altro come elemento indispensabile per definire se stesso, nell’individualismo invece l’altro è sempre un nemico o quanto meno un concorrente; falsamente ugualitaria: teoricamente tutti siamo liberi di trascorrere le vacanze alla Seychelles,ma la libertà di noi squattrinati arriva si e no a Fossato di Vico; il nostro è un mondo di diritti proclamati ai quali non corrisponde la possibilità di esercitarli; consumista: il consumismo sul piano materiale, consiste nel consumare (cose, oggetti, denaro, ecc) non in base ad un bisogno reale, ma in base ad un bisogno artificialmente indotto, soprattutto dai cosiddetti “persuasori occulti”, quelli che (come la gran parte dei mass media) ti convincono senza far percepire la propria presenza; o sul piano culturale consiste in un drammatico stravolgimento della vita, grazie al quale uno si misura non su quello che è ma su quello che possiede (“conosci quel signore di Perugia?…” – “Chi? Quello che ci ha quella Mercedes da 100 mila euro?

La cosa che va sottolineata è questa:
INDIVIDUALISMO, FALSO EUGUALITARISMO E CONSUMISMO NON SONO FRUTTI ESTEMPORANEI DEL NOSTRO TEMPO. MA SI INSERISCONO STRUTTURALMENTE NEL SUO MODO DI VEDERE GLI UOMINI, IL MONDO, LA VITA.

La nostra cultura, figlia e madre dell’Illuminismo
L’Illuminismo ha generato la nostra cultura e ne è stato generato.
Gli schemi di approccio alla realtà introdotti nella nostra storia culturale dall’Illuminismo mostrano ormai la corda. Che l’Illuminismo abbia avuto meriti grandissimi, è fuori di dubbio: la visione laica e tollerante della vita che ci caratterizza manca all’Islam, e noi la dobbiamo all’impegno morale di gran parte degli uomini di cultura che nei sec. XVII-XVIII misero sotto accusa
1. la concezione rassegnata del mondo; non si può vivere in attesa della vita eterna, la felicità va costruita qui e adesso;
2. il principio d’autorità: il fatto che si sia sempre stati convinti d’una certa verità non ne è affatto garanzia totale. D’ora in avanti non accetteremo più nulla passivamente.
D’ora in avanti – dissero quegli uomini – ci affideremo solo alla libera ragione, unico criterio di verità, griglia selettiva di tutte le affermazioni. Quello che non passa attraverso il filtro della ragione, lo ributtiamo in mare.
Bene, possiamo accettarlo anche noi Cristiani, che individuiamo però l’acme supremo del procedimento razionale nell’ammissione che, di fronte ai grandi interrogativi sul senso della vita, la ragione non ha nulla da dire e viene spinta, dall’interno, ad aprirsi all’Ulteriore.

Ma il punctum dolens era altrove. La vera protagonista dell’Illuminismo fu un’intera classe, la borghesia imprenditoriale, coi sui intellettuali dai circuiti cerebrali possenti, ma anche coi suoi imprenditori vivacissimi e i suoi mercanti infaticabili, una classe che quando parlava di libertà intendeva l’abolizione dei mille lacci e lacciuoli che frenavano l’iniziativa privata, e, prima ancora, quando parlava di ragione, non lo faceva in astratto, ma la collocava in una prospettiva operativa concreta: la ragione che produce felicità, in quanto piega alle necessità del cammino umano sia la natura che la storia.

Dietro la magica parola di facciata, “Ragione”, si profilò, anche se tentò di mantenersi nascosta il più possibile, l’altra parola magica, quella che realmente “tirava”: Dominio.

L’obiettivo/base delle dinamiche civili si duplicò:
1. dominare la natura mediante la tecnica;
2. dominare la storia mediante la politica.
Sono le due leggi fondamentali dell’individualismo.
Ognuno le persegue con tutto se stesso. E se ci si mette insieme, è SOLO perché insieme quegli obiettivi possono più facilmente essere raggiunti.

Fra parentesi: la vittima più illustre
La vittima più illustre dell’Illuminismo fu la solidarietà.
Non esistono nella cultura illuminista motivazioni razionali sufficienti a rendere ragione d’uno specifico dovere morale di sostegno alle fasce deboli della società, perché esse non saranno mai in gioco, non potranno mai dominare nulla e nessuno.
La filantropia è un piacevole optional del progetto-uomo illuminista, ma non si parli di un vero e proprio dovere di “farsi prossimo” di chi non ce la fa!
L’unico imperativo morale era rivolto ai “normali”, cioè ai ricchi o ai potenzialmente ricchi. Dategli sotto ad arricchire, e con ciò avrete assicurato benessere per tutti! Poi andateli a trovare, ogni tanto. Adam Smith: Il benessere del povero sarà il naturale riverbero della ricchezza del ricco.
E così viene spazzato via tutto il pensiero solidarista che, tra mille contraddizioni, aveva innervato la filosofia fino ad allora. E viene spazzata via quella fitta trama di associazioni, comunità, confraternite che secondo W. Ullmann configurava quasi un “privato-sociale” ante litteram ed incarnava un senso del “potere dal basso”, incentrato sui bisogni concreti della persona concreta, radicalmente diverso rispetto a quello che noi tutti, in occidente, abbiamo finito per interiorizzare.
L’Illuminismo invece motiva idealmente il sorgere dei grandi, lugubri istituti dove vengono concentrati tutti: handicappati, psicolabili, ritardati mentali, schizofrenici. Il motivo che viene dichiarato è quello di assisterli. Il motivo reale è quello di difendersi da loro, rinchiudendoli.
Bisogna toglierli dalla circolazione senza fare loro del male. Bisogna convincerli che quella è la vita migliore, per loro e per la società.
“Un piatto di minestra ce l’hai cosa vuoi di più?”

DA DOVE PARTONO LE METASTASI

Una volta che il motore della convivenza civile diventa l’utilità, si attivano processi che, almeno tendenzialmente, sono tutti mirati a scatenare la guerra di tutti contro tutti. La nostra civiltà è eminentemente concorrenziale. Concepiamo in tutto come se fossimo impegnati 24 ore su 24 in una gara con gli altri.
Qui tutta la portata culturale dei Ceri: una “gara” nella quale i “concorrenti” non possono sorpassarsi
La sete di dominio organizza la vita di tutti secondo due sottosistemi:
o il sottosistema ECONOMICO, incentrato sul primato assoluto della PRODUZIONE;
o il sottosistema POLITICO, incentrato sul primato assoluto del POTERE.
E’ “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse: integrato in tutto e per tutto nel sistema, egli usa riempirsi la bocca di parole come libertà e dignità, ma in realtà la sua vita segue con assoluta docilità un diagramma preconfezionato altrove e ordinato a rendere tutto funzionale all’ideologia dominante.

Sade e Nietzsche nell’ 800, tutta la filosofia del ‘900, da Bergson e Blondel, dal rilancio del pensiero religioso (Barth, Bultmann, Bonhöffer) al personalismo di Mounier e a tutto l’esistenzialismo.
Il pensiero dello stesso Heidegger approda ad una conclusione di questo tipo: l’imperversare della tecnologia è il cancro che corrode il nostro mondo, ma esso non può durare all’infinito, non si può puntare a “produrre sempre” e a “produrre tutto”.
S’impone una radicale rivisitazione delle categorie interpretative della vita.

L’ALTERNATIVA SUL PIANO DEL METODO

j Reimparare a parlare
L’era dei telefonini è anche l’era del “silenzio assordante”: Non si parla, si blatera. 37 milioni di cellulari, e mai la comunicazione autenticamente umana aveva raggiunto livelli così bassi.
Parlare di cose serie, che riguardino la vita di tutti, e soprattutto dei più poveri, e con un fine preciso: fare sintesi fra quello che dici tu e quello che dice lui.

k Scavare incessantemente alla ricerca del senso ultimo della vita
Scavare è più importante che trovare.
In vetta a tutte le proposte, quella che ha formulato Gesù di Nazareth. “Chi tenta di accaparrare la vita la rinsecchisce, chi la mette a disposizione degli altri la fa crescere”: questo non è un brano di taglio parenetico; Gesù non vuol dire: “Ragazzi miei, cercate di comportarvi così”.
No: questa è la più alta delle acquisizioni della coscienza umana di Cristo; all’acme del suo cammino di maturazione, il figlio del falegname, grazie anche alla compresenza del Figlio di Dio, ha maturato la convinzione che la vita per natura sua è questo e non altro: un bene intrinsecamente paradossale, che si realizza nella misura in cui uno la dimentica e cresce nella misura in cui uno ne fa parte agli altri.
Chi vieta che un laico incallito e un ateo serio possano arrivare, dalla loro angolazione, a questa conclusione?

lAvere chiaro dove si vuole arrivare
Contro l’assolutizzazione del potere e della produzione, l’assolutizzazione della persona e della comunità.
Contro la cultura dell’utile, la cultura del gratuito.
Verso il primato dell’altro in quanto Altro, indispensabile per la realizzazione dell’io.

mAvere chiaro come ci si vuole arrivare
Noi contribuiamo a cambiare le cose quando:
o abbiamo in testa e nel cuore un grande sogno: il sogno della libertà, dell’uguaglianza e pienezza di vita per tutti;
o coinvolgiamo più gente possibile nella sua realizzazione;
o lo perseguiamo mettendo in atto un serie di scelte diverse, nei campi più diversi (in famiglia, a scuola, in fabbrica, in ufficio, nel tempo libero), ma ispirate tutte allo stesso DNA: il DNA della profondità e della generosità.
L’ALTERNATIVA SUL PIANO DEI CONTENUTI

Che fare?
j Dare il primo posto nel nostro sogno a quello che oggi è maggiormente in ombra: la LOTTA PER L’UGUAGLIANZA.
L’UGUAGLIANZA È IL PILASTRO DELLA VITA CIVILE. Noi lo riaffermiamo sulla linea dei bisogni anche più gravi. Il bambino autistico ha diritto ad essere uguale ad Albert Einstein, e noi abbiamo il dovere di garantirglielo. Affermazioni del genere hanno una forza culturalmente dirompente. Libertà, uguaglianza, fraternità. Uguaglianza come trait d’union fra libertà e fraternità. Se non siamo uguali non potremo mai essere né liberi né fratelli.
E proprio contro l’uguaglianza s’è sempre scatenata la reazione dei conservatori. A cominciare dalla Restaurazione dei primi dell’ 800. Ma è stato nella seconda metà del sec. XX che l’ideale dell’uguaglianza tra gli uomini ha fatto giganteschi passi indietro.
Anche grazie a certi discorsi superficialmente solidaristica, che hanno preteso che l’esercizio della solidarietà mettesse da parte il culto dell’uguaglianza.
In una cultura autenticamente progressista, la “solidarietà tappabuchi” va emarginata: la solidarietà o si afferma nella prospettiva dell’uguaglianza, o è falsa solidarietà, tale da ratificare tutti gli abusi.
Norberto Bobbio: “Tornare a fare dell’uguaglianza la stella polare di tutto il discorso politico”.
Agli antipodi rispetto a quella destra secondo la quale l’’unica cosa saggia da fare è governare le disuguaglianze. Sono d’accordo la Tatcher, Bush, Aznar, Berlusconi. Come fu d’accordo Reagan. In fondo – si dice – il nostro Occidente una SOSTANZIALE uguaglianza l’ha assicurata a tutti. E siccome non esistono né la libertà assoluta né l’assoluta uguaglianza, l’obiettivo che va perseguito da una società giusta è innanzitutto quello della “massimizzazione della libertà dei suoi membri”; l’importante è “che il sistema delle disuguaglianze sociali ed economiche sia tale da garantire il miglioramento delle condizioni di vita anche di colui che occupa l’infimo gradino della scala sociale” e che “rimanga sempre e comunque uguale per tutti la possibilità di accesso a tutte le posizioni sociali”.
La teoria della “giusta disuguaglianza” è la premessa per arrivare alla “società dei due terzi”. Non pochi sociologi ti avvertono che, quando parlano di “benessere della popolazione”, intendono parlare del “benessere dei 2/3 della popolazione”: si dà per scontato che l’altro 1/3 viva strutturalmente a rimorchio: bisognerà metterli in conto nelle colonna delle uscite, non in quella delle entrate; sono “una perdita secca”: anziani, handicappati, psicolabili, ex tossicodipendenti, terzomondiali, fuori di testa assortiti. Un peso morto, del quale occorre realisticamente tenere conto, facendo aggio sulla solidarietà. La teoria del governo delle disuguaglianze è la premessa per mettere fuori giuoco i diversi, emarginarli.

Che fare?
k rimettere al centro l’UTOPIA DELL’UGUAGLIANZA
L’unico obbiettivo degno della nostra umanità è quello di battersi contro tutte le disuguaglianze.
Certo, sarebbe altamente immorale proporsi in tema d’uguaglianza mete utopiche senza tenere conto degli spazi concreti che all’uguaglianza concreta lasciano le concrete condizioni di vita in un certo tempo in un certo paese.
Ma sarebbe ancora più immorale accettare l’esistente come il migliore dei mondi possibili; la massimizzazione della libertà oggi in atto come il top assoluto della libertà; la ripartizione delle risorse sancita dai trattati internazionali come la più giusta.
Il culto dell’uguaglianza è un’utopia, un obiettivo irraggiungibile nella sua materialità; Bobbio stesso lo ribadisce: “Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi era mai stata proposta come un modello da volgere in pratica. Platone sapeva che la repubblica ideale, della quale aveva parlato coi suoi amici e discepoli, non era destinata ad esistere in nessun luogo….”; altrettanto Tommaso Moro; altrettanto, su di un piano diverso, Francesco d’Assisi, con la sua disperata speranza di vivere “Evangelium sine glossa” altrettanto Gesù di Nazareth, con la sua incredibile pretesa che i Suoi fossero “Perfetti come è perfetto il Padre”
E come utopia il culto dell’uguaglianza va continuamente rimesso al centro della tensione morale e civile. Oggi l’utopia è cinicamente calunniata dagli uomini minuscoli che hanno ridotto la politica a mercato. In realtà l’utopia è il motore della storia, come il sogno è il motore della vita. Eduardo Galeano, a chi gli chiedeva a che serve l’utopia, visto che non porta a nulla, rispondeva: ”Serve a camminare”.
C’è solo un modo per uscire dai problemi: uscirne tutti insieme. Era la definizione che don Milani dava della politica: Uscirne insieme è politica, uscirne da soli è egoismo. Uguaglianza, “stella polare” del discorso politico.

Che fare?
l DENUNCIARE IL GRANDE INGANNO DELL’UGUALITARISMO MODERNO
Da due secoli a questa parte la nostra vita, tutta intera, in tutti i suoi aspetti, dai massimi sistemi fino alla scelta degli abiti, è strutturata secondo una razionalità di base che s’impose nella Francia e nell’Inghilterra del 1700 e da lì dilagò, risultando poi ampiamente vincente. Nel nostro linguaggio moderno “razionale” è ciò che tutti abbiamo imparato a riconoscere come tale sulla base della grande lezione che ci hanno impartito gli Illuministi.
Ma gli Illuministi facevano splendidi discorsi, ci credevano, però non parlavano asetticamente: erano la punta di diamante della borghesia, la classe sociale recentemente assurta a protagonista, e per questo, se la parola d’ordine di facciata fu “Una nuova razionalità!”, la parola d’ordine effettivamente operante fu “Dominio a qualsiasi costo!”.
In ultima istanza, quello che muoveva l’Illuminismo non era l’apostolato laico di chi si vota alla costruzione di un mondo in cui l’uomo possa essere … più uomo; questo era vero per alcuni, ma il nucleo duro della loro proposta era il dominio.
o Dominare la natura attraverso la tecnica.
o Dominare la storia attraverso la politica.
La Scuola di Francoforte, scioccamente messa da parte ai giorni nostri, l’ha abbondantemente dimostrato: in una cultura di taglio illuminista come la nostra non c’è spazio per l’uguaglianza.
L’affermazione sembrerà blasfema, visto che nessuno al mondo ha mai parlato di uguaglianza tanto quanto gli Illuministi. In realtà gli Illuministi, anche se solo indirettamente, hanno messo in crisi totale l’uguaglianza che proclamavano sui loro vessilli quando hanno schiantato alla radice non solo il concetto di uguaglianza, ma anche quello di solidarietà.
Gli illuministi con voce ferma proclamavano l’uguaglianza, ma negavano addirittura la ragion d’essere della solidarietà.
Nella filosofia Illuminista “la solidarietà è un falso problema”, “l’impegno responsabilmente assunto rispetto ai meno fortunati diventa del tutto superfluo”. Non si tratta di una tesi accessoria, ma di una tesi assolutamente centrale nella nuova visione del mondo: dalle teorie economiche di Adamo Smith, Geremia Bentham e John Stuart Mill fino alla filosofia del Lessing è tutta un’esaltazione dell’individuo come capacità di iniziativa: chi non ne è capace deve accontentarsi delle briciole.

E’ la tesi micidiale che anche il più ragionevole tra i liberismi e i neo-liberismi rischia di accreditare, infilandola (magari senza averne piena coscienza) nel fascicolo delle sue istanze, a volte pienamente condividibili. Questa: il benessere dei poveri sarà il naturale riflusso dell’ulteriore benessere dei ricchi.
John Rawls e i suoi non dicono nulla di nuovo. Se teorizzano la politica come governo delle disuguaglianze è perché vogliono accreditare l’immagine d’un mondo che sostanzialmente “va bene”, anche se qualche “imperfezione” è inevitabile.

Questa bugia, vista dalla frontiera della lotta contro l’emarginazione, appare in tutta la sua devastante portata. È del tutto fuori strada chi interpreta l’espandersi a macchia d’olio del disagio come un incidente di percorso. Esso è in realtà un campanello d’allarme estremamente preoccupante. I ragazzi drogati, gli skin-heads, i piccoli criminali, quelli che gettano massi dai calvacavia, quelli si che stordiscono nei Rave notturni non sono affatto un incidente di percorso d’una società in cui tutto il resto fila liscio; essi ci appartengono a tutto tondo, perché vivono a livello patologico tutto quello che noi viviamo e riusciamo a mascherare a livello di “normalità”.
La riflessione delle comunità di accoglienza in proposito da tempo è approdata a una conclusione che nel CNCA ha ormai il sapore d’un ritornello: “Gli emarginati non sono la parte malata della società, ma il sintomo più evidente d’un disagio culturale che investe tutta la società”. I clochards di Parigi non sono poveracci qualsiasi, se è vero che pubblicano (e vendono) ben 4 quotidiani.

Tra i tre grandi valori della modernità quello oggi dimenticato è l’uguaglianza, espressione della virtù cardinale della giustizia. Cosciente e più volte ribadita la scelta della destra: Non ci interessa l’uguaglianza, vogliamo solo governare le disuguaglianze.
L’uguaglianza è un’utopia. Ma irrinunciabile.

Che fare?
m Vivere di utopie.
Perché fanno camminare.
Recuperare quella che sentiamo più vicina.
o Quella di Gesù di Nazareth (Come il Padre; “Chi accaparra la propria vita la perde, chi la mette a disposizione degli altri l’accresce”);
o quella di Francesco d’Assisi (Evangelium sine glossa; vivete sicuti alii pauperes);
o l’utopia degli anarchici;
o l’I CARE della Scuola di Barbiana.

Che fare?
n Rivalutare il bisogno come frontiera della vita autentica.
La vita tanto più vale quanto più costa fatica conquistarla.

Che fare?
o Contro il primato del dominio, il primato del dono.
La vita è un bene intrinsecamente paradossale, quanto più uno tenta di spremerla tutta a proprio vantaggio, tanto più essa si inaridisce; quanto più uno la mette a disposizione degli altri, tanto più essa si arricchisce.

Che fare?
p Cominciare sempre dagli ultimi.
L’imparzialità è un’invenzione degli Illuministi del 1700, interamente protesa a perpetuare l’ingiustizia.
Gianni lo Zuccone chiede di essere il perno dell’organizzazione della sua scuola, se ssa serve non semplicemente a formare i quadri dirigenti, ma a rendere uguali.

UNA STRUTTURA DI SUPPORTO PER IL VOLONTARIATO
Nel 1991 lo Stato italiano l’inquadrò nel sistema sociale italiano, con una specifica legge/quadro, la 266/91, riconobbe il suo ruo0lo sociale, delineò le caratteristiche del volontariato autentico, stabilì delle garanzie specifiche per le associazioni, ne regolò il rapporto con le istituzioni, previde agevolazioni fiscali e varie possibili forme di sostegno.

Messo a punto il concetto di volontariato, bisognava rendersi conto che esso ha bisogno di strutture di supporto, anche economiche.
Ma come, il volontario non fa tutto gratuitamente?
Solo un esempio. Certe linee telefoniche (come il Telefono Verde) sono a disposizione di chi sta elaborando la decisione di suicidarsi: il poveretto sa che può telefonare a ue certo numero, trova sempre un volontario che gli risponde…: ma in genere questi signori hanno l’avvertenza di dire: “Senta, per favore, mi richiami lei”. Da Catania Milano: E la bolletta del telefono sale …: chi paga?

Nel 1991 il DM applicativo della legge 2667, al fine di finanziare i servizi di sostegno dei quali il Volontariato ha bisogno, impegnò le Fondazioni che governavano le S.p.A. bancarie, a istituire su base regionale un fondo pari ad 1/15 dei loro utili e, al tempo stesso, ha previsto presso ogni Regione un Comitato di Gestione dei Fondi per il Volontariato, composto di 14 membri (4 dei quali in rappresentanza del Volontariato medesimo); il Comitato emana i bandi di concorso che stabiliscono tempi e modi di presentazione dei progetti intesi a gestire i fondi disponibili a mente della legge stessa.
Su questa falsariga nel 1996 è nato Il CeSVol (Centro Servizi per il Volontariato).
Il CeSVol è un’associazione di associazioni di volontariato che si è costituita dopo quasi due anni di approfondimento e dibattito fra tutte le associazioni che ne avevano accettato l’invito, più volte reiterato, per porre in essere l’interlocutore del Comitato di Gestione: un Centro Servizi unitario, forte, contrattualmente credibile perché formato per intero da Volontari che conoscono le esigenze vere di questo particolare mondo e che, agendo a nome e per conto dell’associazione che hanno alle spalle, possono ragionevolmente garantire la massima trasparenza ed efficienza nell’erogazione e nell’utilizzo dei Fondi medesimi.
Al CeSVol possono aderire tutte le Associazioni di Volontariato operanti in Umbria, siano esse
Il CeSVol non può distribuire denaro, ma solo erogare servizi.
Tramite il dibattito ampio e approfondito di questi due anni il CeSVol ha individuato questi quattro filoni: informazione, formazione, promozione, pubblicizzazione.
• informazione: utilizzando strumenti prevalentemente telematici, le Associazioni potranno comunicare sia tra loro che con l’esterno, e accedere a servizi di carattere informativo generale che saranno disponibili anche per altri soggetti, ma prima ancora saranno stati pensati sulla lunghezza d’onda delle esigenze e dell’approccio coi problemi sociali tipico del mondo del volontariato;
• formazione: il CeSVol si propone innanzitutto di promuovere la cultura del volontariato, perché questa preziosa modalità innovativa ed espansiva dei rapporti interpersonali, che ha preso forma e coscienza nel nostro tempo, riesca ad esprime nel quotidiano di tutti un radicale rinnovamento nel modulo di autocoltivazione che ogni uomo adotta; all’interno di questa fondamentale azione di base saranno promosse a vari livelli, sia direttamente dal CeSVol stesso che fornendo alle singole Associazioni informazioni e competenze necessarie a gestirle in proprio, idonee iniziative di formazione (corsi, stages, seminari di approfondimento, ecc.);
• promozione: il CeSVol offrirà sostegno, concreto, messo a punto insieme con loro, all’attivazione dei servizi previsti da parte delle singole Associazioni; garantirà nelle forme più efficaci assistenza e consulenza fiscale, tributaria, economica, finanziaria, contabile, gestionale; si metterà a disposizione per sostenere la rappresentanza della Associazioni, singolarmente o in gruppo, in tutte le sedi che esse riterranno opportune;
• pubblicizzazione: il CeSVol intende farsi conoscere non una tantum, ma continuativamente, e pubblicizzare attraverso i canali idonei sia le iniziative comuni cui le Associazioni decideranno di dar vita, sia le iniziative significative che ognuna di loro riterrà di dover intraprendere in prima persona.